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II Domenica di Quaresima – Dio non dobbiamo cercarlo né sul Calvario, né sul Tabor, né sul monte Moria, in quanto Dio è nella valle dell'umana sofferenza, là dove si entra per amore.

Possiamo dire che il sacrificio di Abramo è il vertice dell’AT, oltre il quale non si dà altro sacrificio se non quello da esso significato, il sacrificio del Cristo.
La tentazione di Abramo, in quanto voluta da Dio stesso, ha posto Abramo in una situazione di spogliazione totale perché il Signore non solo gli ha chiesto di perdere il suo figlio ma di perdere lo stesso suo Dio, che si celava oltre l’enigma di due parole contraddittorie: quella della promessa e il comando d’immolare Isacco.
«…Talvolta l’azione della libertà di Dio è tale che sembra distruggere le promesse stesse di Dio. Solo una fede nella completa oscurità può vincere “il conflitto ermeneutico”, che per Abramo era massimo. Talvolta ci sembra che la nostra adesione a Dio che si rivela nella storia ci faccia perdere Dio stesso.
Dobbiamo credere alla fedeltà di Dio al di fuori da ogni garanzia: la Chiesa non può localizzare in nulla la promessa di indefettibilità, sennò limita la libertà sovrana di Dio che deve essere garantita» (d. G. Dossetti, appunti di omelia, 1970).
«La grazia data ad Abramo era inclusa nell’unica grazia data al mondo nel suo Figlio. Da quel che ha fatto Abramo per parte possiamo capire quel che ha fatto Iddio per noi per il tutto.
Come prima di Gesù tutto il mondo ha partecipato a questa unica grazia così noi che abbiamo visto dobbiamo essere certi di avere tutto! Dal momento che Dio ci ha dato Gesù dobbiamo avere fede e fiducia, non dobbiamo temere che qualcosa non ci sia dato, se temiamo che qualcosa ci manchi facciamo torto a Dio. Possiamo chiedere tutto a Colui che ci ha dato tutto. Ciò che vince il semplicismo è la misura della fiducia in ciò che Dio ci ha già dato» (d. G. Dossetti, appunti di omelia, 1970).
La pagina del Vangelo è di una grande ricchezza in quanto essa è una contestazione dell’estasi religiosa raffigurata dall’apparizione di Gesù con la sua veste candida, circondato di luce, in mezzo ai profeti, raffigurazione che suscita l’entusiasmo nei tre spettatori privilegiati, che volevano rimanere lì.
Conosciamo bene questo secondo rischio, di carattere più sentimentale che razionale, quello della fede che crea un mondo a sé di estasi gratuite, fuori del territorio comune della nostra comune tribolazione.
L’uomo estatico ci affascina – se pure ci affascina – perché ci sembra esentato dalla condizione, che è la nostra, di pagare ogni giorno il tributo alla malizia del vivere.
Anche questa è una fuga.
Quando la luce si spegne, Gesù è come gli altri, è solo, è un uomo gracile che parla di sé come condannato a morire. Dice ai suoi quello che avverrà fra pochi giorni. Entrerà nelle tenebre del Getsemani quando i tre spettatori, tutt’altro che entusiasti, saranno presi da tedio, stanchezza, e precipiteranno nel sonno mentre Egli soffriva e pregava.
Gesù svela un nuovo baricentro della fede che non è la tenebra trascendente di Jahvè, è la tenebra immanente della condizione umana.
Dio sta per nascondersi nella tribolazione di un viaggio di morte, nella tribolazione di un giudizio ingiusto dato dal tribunale.
Gesù sarà condannato a morte con la complicità dei due poteri, solidali solo in questo. Sarà messo tra due delinquenti. Questo è l’evento che si prospetta ed è in questa tenebra – questa volta non trascendente, oltre l’ultimo cielo, ma dentro la condizione della sofferenza umana -, in questo profondo cuore dell’esistenza, che si nasconde il mistero del Dio di Gesù Cristo, per conoscere il quale non c’è da salire su nessuna montagna in quanto la rivelazione della crocifissione – che per un cristiano è l’evento rivelativo di Dio – avviene mentre i quattro discendono dal monte, vanno, idealmente, verso la valle del Getsemani dove tra poco Gesù pregherà sudando sangue.
Questa discesa nella condizione umana è la specificità del Vangelo. È vero: il Dio di Gesù Cristo è ancora il Dio di Abramo.
Anche Paolo dice in questo brano «che Dio ha voluto sacrificare il proprio figlio per redimere l’umanità».
Abbiamo ancora questo Dio che ha ancora bisogno di sangue!
Perché ha bisogno di sacrificare il figlio?
Lui che è onnipotente, non può liberarsi da questa necessità?
È la necessità umana che si proietta su Dio, vincolandolo al proprio modo di ragionare. Quello che è certo è che sul Calvario c’è un Dio muto, il Dio che fa sollevare il petto del morente nel grido: «perché mi hai abbandonato?».
Eccoci di nuovo dinanzi a Jahvè. Noi che riconosciamo nella parola del Signore la manifestazione del mistero di Dio, sappiamo che non dobbiamo cercarlo né sul Calvario, né sul Tabor, né sul monte Moria, in quanto Dio è nella valle dell’umana sofferenza, là dove si entra per amore.
La sofferenza in sé non è un valore, anzi è proprio il fatto che fa scandalo. Questo Gesù che sta morendo è quello che dinanzi ai morti ha pianto, ha avuto un fremito, non ha avuto la parola del filosofo che ci persuade che la morte è una guarigione dal male della vita. No! Egli anzi ha sentito la vita in modo tale che non ha mai avuto fremiti se non dinanzi ai cadaveri.
Egli ha sentito nel cadavere il segno della negazione di Dio.
Il cadavere è il sacramento del peccato del mondo, è la non vita che urta contro l’evidenza del valore della vita, è un grido contro Dio e a cui Dio dovrà pur rispondere un giorno.
Quel giorno – noi lo chiamiamo il giorno del giudizio universale – sarà il giorno non in cui gli uomini si giustificheranno dinanzi a Dio ma in cui, come primo atto, Dio si giustificherà dinanzi a noi, dandoci il senso delle cose che non abbiamo compreso, non per nostra meschinità, ma per nostra dignità.
Ci sono cose che non comprendiamo perché siamo meschini, ma ci sono cose che non comprendiamo perché siamo coerenti con ciò che in noi è più nobile. La morte degli innocenti è qualcosa che ci scandalizza: la teniamo in mano in attesa che Dio ci faccia capire.
Questo mistero di Dio in Gesù Cristo si semplifica rientrando in questa legge semplice – tanto semplice che non ci sarebbe bisogno di altre parole – e insieme profondissima che chi entra nell’umana tribolazione per amore dei fratelli sa chi è Dio.
La conoscenza di Dio quindi non è una conoscenza che si svolge al di fuori, ma dentro questa discesa negli inferi della condizione umana.
Discendere agli inferi vuol dire discendere nei sepolcri, non andare in qualche sceol, o in qualche inferno di dantesca struttura, vuol dire scendere nella condizione infera.
Se voi andate al cimitero, ecco gli inferi! Dio scende nel sepolcro, scende dove scende l’uomo È per questo che noi dobbiamo liberaci dai moduli, che pur ci riafferrano, come la struttura religiosa convenzionale e la struttura razionale di Dio, per ritrovare il luogo che Dio ha stabilito come luogo di cognizione.
È il luogo in cui conosciamo anche l’uomo.
Ecco perché le due conoscenze sono una cosa sola. Quando nel linguaggio teologico antico, un po’ solenne, e quindi di poca risonanza in noi, diciamo che Gesù Dio e l’uomo sono una sola persona, vogliamo dire questo: che la condizione umana e la condizione di Dio si manifestano nello stesso momento, nello stesso evento.
I due versanti del mistero, quello del Dio innominabile e quello dell’uomo inesplicabile, si manifestano in un solo evento.
È questa la verità della fede. Ecco perché, dopo venti secoli, siamo qui con la stessa tenebra, senza aver acquisito una ragione in più per credere, senza averne perduta nemmeno una.
Naturalmente altre difficoltà sono nate in noi, ma esse sono difficoltà relative a questo mutamento permanente della coscienza, stretta com’è nelle rappresentazioni del mondo. La nostra rappresentazione del mondo è molto omogenea a questa solitudine di Gesù. Gli antichi potevano pensare ad un’altra dimensione dell’esistenza, che traducevano in simboli sacri, tra i quali vivevano con più agilità che non nella realtà del quotidiano. Per noi quel mondo di simboli sacri si è come scomposto, si è dissolto.
Come Gesù dopo la Trasfigurazione, noi siamo solo dei poveri uomini, dei poveri cristi. Non abbiamo nemmeno voglia di chiedere apparizioni.
Ci rimane l’umano. Questo umano non altro da Dio. È qui dentro, in questa pietra che, se guardate bene, sfavilla il frammento d’oro. Spaccate e trovate la scintilla che chiamo Dio, il mistero di Dio di Abramo diventato però prossimo a noi, interno alla nostra esperienza umana. ( Ernesto Balducci – da: “ Il Vangelo della Pace ” vol 2 anno B )

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