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Lettura continua del libro ” Pregare la Parola” (Quinto Capitolo -A )

V° CAPITOLO : FORMAZIONE ALLA «LECTIO DIVINA»

 

XVIII GIORNO

Uno dei più gravi ammonimenti che risuonano presso i Padri è quello di non profanare la Scrittura facendo di essa un oggetto di speculazione o di conoscenza  per la conoscenza perché questa è un’attività che può svolgere anche un ateo, mentre il credente sa che quando prende in mano la Scrittura può comprendere ciò che legge solo per grazia di Dio.

La lectio divina é dunque la maniera più autentica e più atta per leggere la Scrittura ricevendone la grazia.

I rabbini dicevano che la Torah , la Parola, era la presenza di Dio nella creazione, presenza che l’uomo faceva sua con la lettura, la meditazione, la preghiera.

Ebbene, sono questi i tre momenti fondamentali della lectio divina per la pietà giudaica come per quella cristiana più antica.

Questo metodo giudaico di assimilare la Parola è stato ereditato dal cristianesimo (cf. 2Tm 3.14-17 e Rm.15.4) ed è comune a tutti i Padri della chiesa d’oriente e d’occidente, anche se bisognerà arrivare al medioevo per averne una trattazione vera e propria.

 

    Più tardi, soprattutto con il XVI secolo, la lectio cadrà in disuso nella chiesa, ma sopravviverà, anche se in forma diversa, nelle chiese della riforma la cui esperienza ci può certamente aiutare a individuare lo scopo  della lectio divina nei modi fissati dai Padri antichi e poi arricchiti dai Padri medioevali. Ma nei monasteri sarà conservato ininterrottamente tale metodo e sovente si registrerà una polemica verso le altre forme di lettura.  

Nel basso medioevo ci sarà una critica nei confronti dei canonici regolari e dei domenicani, la cui lectio scolastica tendeva alla quaestio e alla disputatio e non al bene supremo della meditatio e dell’oratio; e ugualmente, in seguito, contro il metodo loyoliano della meditazione, troppo psicologico e introspettivo.

All’interno stesso del monachesimo si dovette difendere la lectio divina soprattutto contro la tendenza, emersa nel secolo XII, a ridurla fino quasi a farla scomparire per lasciar posto soltanto alla preghiera liturgica con interminabili e continui uffici in cui l’opus Dei sostituiva la lectio divina.

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XIX GIORNO

Ma dopo un tempo di esilio di tale metodo, corrispondente al tempo dell’esilio della Parola, è stato il concilio Vaticano II a proporcelo: «E necessario che tutti…  connservino un contatto continuo con le Scritture mediante la lettura sacra… mediante la meditazione accurata… e si ricordino che la lettura va accompagnata dalla preghiera››.

 

La lectio divina, lettura orante, Parola pregata, orazione meditata, resta dunque il metodo privilegiato, e noi vogliamo indicare qui alcune linee introduzione a esso.

Nell’enucleazione delle varie fasi della lectio divina ci serviremo di un invito di Guigo II Certosino, che applica a una parola di Gesù sull’orazione il metodo da lui schematizzato e organizzato nella Scala dei monaci.

   In Matteo 7.7 è riportata la seguente parola di Gesù: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto››.  E Guigo così parafrasa: «Cercate nella lettura, troverete con la meditazione; bussate nella preghiera, entrerete nella contemplazione››.   Come si vede, Guigo parafrasa e riassume il metodo della lettura pregata nei due ultimi inviti della parola evangelica, ma noi crediamo opportuno aggiungere e parafrasare anche il primo invito: «Chiedete e riceverete». In questo modo: chiedete lo Spirito, riceverete la capacità di leggere.

      Tale schema crediamo sia valido per la formazione alla lectio divina. Nel dinamismo della vita spirituale per giungere alla preghiera vera, alla comunione con Dio, al nostro incontro faccia a faccia con lui, questa struttura è valida sia per l’orazione che per la lectio, ed è pedagogica per la nostra iniziazione.

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XX GIORNO

A – CHIEDETE LO SPIRITO, RICEVERETE L’ILLUMINAZIONE

 

Davanti alla Scrittura Giovanni Crisostomo pregava: «Apri gli occhi del mio cuore affinché io comprenda e compia la tua volontà…, illumina i miei occhi con la tua luce», ed Efrem il Siro consiglia: «Prima della lettura prega e supplica Dio che si riveli a te››.

Ecco il primo e fondamentale atteggiamento per chiunque si accinge alla lectio divina: chiedere che lo Spirito di Dio venga a illuminare tutto il nostro essere affinché sia possibile l’incontro con il Signore. La nostra realtà è infatti quella di uomini ciechi che devono gridare dinanzi al libro: «Signore, fa’ che io veda», «Signore, apri i miei occhi e il mio cuore», allo stesso modo in cui prima di lodare Dio nella liturgia ebraica e latina si implora: «Signore, apri le mie labbra».

Ogni lettura della Scrittura presuppone l’epiclesi (dal greco ἐπίκλησις (epìklēsis), “invocazione”), perché la Scrittura diventa Parola vivente solo attraverso lo Spirito che in essa è contenuto e in essa riposa, come ha riposato sul Figlio nel battesimo.

Occorre leggere nella dimensione pneumatica, che è quella del corpo di Cristo, della chiesa, della tradizione in cui la Parola parla.

C’è un corpo in cui le parole divine possono risuonare come parole di vita: la chiesa. Epiclesi è dunque invocazione dello Spirito in unione con la chiesa, che non possiede la Parola, ma la custodisce attraverso lo Spirito che riposa su di lei e attraverso le Scritture.

Nella liturgia la convocazione del popolo è già di fatto un’epiclesi, ma nella lectio divina il credente deva farla esplicitamente, in unione con la grande epiclesi eucaristica che la chiesa costantemente fa nella comunione totale e sostanziale con lo sposo, il Cristo.

Cade così ogni pericolo di consumismo privatistico della Parola del Signore, cade il pericolo del soggettivismo interpretativo, il pericolo del sogno o dell’arbitrio, e l’approccio personale alla Parola diventa sacramento dell’unità della chiesa e della Scrittura come fonte unica della Parola del Signore.

Si chiede lo Spirito nella certezza che ci venga dato, perché questa è l’unica domanda che sarà sempre esaudita con certezza, essendo lo Spirito la «cosa buona›› per eccellenza che il Padre non può mai negare al figlio (cf. Lc 11.13).

Lo Spirito Santo non ha agito soltanto una volta sugli agiografi, dando origine ai testi sacri, ma agisce sempre su chi legge le Scritture, e solo la sua presenza assicura che la lettera diventi spirito, solo lui assicura una giovinezza perenne al testo. La Scrittura diventa Parola feconda solamente se lo Spirito di Dio anima chi la legge.

 

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XXI GIORNO

È lo Spirito che ha creato la Parola ed è lo Spirito  che non l’abbandona nel suo cammino nella storia ma la rende nuovamente Parola viva in chi l’ascolta.

Senza l’epiclesi non troveremmo il Verbo di Dio nel testo, perché il testo, che lo contiene, lo rivela a misura della disposizione e della docilità del lettore. Gregorio Magno dice che «lo stesso Spirito che ha toccato l’anima del profeta, tocca l’anima del lettore››, ed Efrem afferma che «solo se siamo saziati di Spirito santo noi possiamo bere il Cristo». Guglielmo di Saint-Thierry ammoniva poi che «le Scritture desiderano essere lette mediante lo stesso Spirito con cui sono state scritte; e tramite esso devono esser comprese››

L’epiclesi dunque produce in noi anzitutto la docilità, la compunzione,  l’illuminazione.

La docilità è l’atteggiamento che l’uomo deve cercare e imporsi, ma che dipende dallo Spirito, in una sinergia tra volontà dell’uomo e azione dello Spirito.

Momento questo certamente molto trascurato sino a oggi nell’occidente, dato lo scarso peso nella vita del credente di una teologia dello Spirito. E tuttavia esso risulta essenziale se non si vuol cadere nell’ascolto di una lettera morta o, tutt’al più, in un ascolto puramente intellettuale e speculativo.

Lettura divina significa che non solo ha come oggetto i libri di Dio, ma che è anche una lettura fatta a due, da noi e dallo Spirito. Gridiamo: «Signore, vieni», e allora il Cristo emerge dal testo e viene e si fa vedere agli occhi della nostra fede.

E per accogliere lo Spirito ci vuole docilità: un monaco del monte Athos giustamente mi parlava della timidezza che deve esserci nella relazione discreta con lo Spirito. Bisogna comportarsi con lo Spirito – mi diceva – come con una colomba, che di tanto in tanto si avvicina a noi quanto più noi stiamo quieti, fermi, docili ad attenderla.

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XXII GIORNO

La venuta dello Spirito, preparata con la preghiera e la docilità, produce il distacco. Occorre questo distacco da noi stessi. Non possiamo prestare ascolto alla Parola di Dio se non facciamo tacere il nostro profondo, non possiamo metterci a leggere se il centro della nostra attenzione resta il nostro io, non possiamo essere liberi di fronte all’azione divina se riserviamo qualcosa per noi stessi e non ci abbandoniamo totalmente a lui.

Dobbiamo fare dunque uno sforzo per reprimere i falsi bisogni, quei bisogni che oggi sono i nuovi idoli, i nostri dei. In realtà molti bisogni ci sono imposti dalle condizioni sociali, ci sono creati dalla pubblicità manifesta od occulta della società in cui viviamo. Mi domando se quelli che confessano di non trovare «soddisfazione» nel leggere la Scrittura non accostino, in realtà, la Parola per soddisfare alcuni loro bisogni precisi, si attendano cioè un risultato che la Parola non riesce a dare loro, perché la Parola come la preghiera non tollera mercificazioni. Sforzo di distacco dall’attaccamento al proprio discorso, al proprio schema logico, cercando di abbandonare ogni egocentrismo per guardare e cercare solo Dio.

 

     E questa un’elementare e semplicissima esigenza che va messa in rilievo soprattutto oggi, dato che il ritmo della vita e l’assordamento generale ben difficilmente ci fanno entrare con naturalezza in questa dimensione.

    Tuttavia, se la nostra mente si dimostra incapace di tale sforzo, seguiamo il consiglio di Pacomio: «Mettiamo freno all’effervescenza dei pensieri che ci angosciano e che salgono dal nostro cuore come acqua in ebollizione, leggendo le Scritture e ruminandole incessantemente… e ne saremo liberati...››.

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XXIII GIORNO

Alzare le mani era il gesto di preghiera ebraico e voleva significare proprio questo distacco attraverso l’levazione: «A te, Signore, innalzo l’anima mia!» (Sal. 25.1).  Così pure l’espressione sursum corda, «in alto i cuori!», della liturgia cattolica e l’inno dei cherubini nella liturgia ortodossa sono richiami a uscire da noi stessi per concentrarci maggiormente su Cristo. Eleviamo i nostri cuori e le nostre mani verso il Dio che è in cielo (Lam 3.41).

     Tutto il nostro essere deve tendere a colui che è in alto, all’Altissimo, deve lasciarsi trascinare dalla sua Parola. Atteggiamento «che non deve evocare uno stato di sublimità, un’esaltazione che confina con l’orgoglio, ma che deve nascere dall’approfondimento dell’umiltà e della spoliazione››. Quando si parla di elevazione dell’anima si vuole significare una tensione verso Dio, e non un rapimento sentimentale. Giusta mente Agostino osservava: «Il cuore non si innalza come i corpi: i corpi per alzarsi devono cambiare di posto; un cuore per alzarsi basta che cambi volontà››.

Elevare il cuore significa dunque entrare nel movimento di attrazione che Dio esercita su di noi, lasciarci spingere dallo Spirito, unificare e raccogliere tutto il nostro essere diviso in un’attenzione a Dio e, nella lectio divina, al testo che abbiamo davanti. Elevare il cuore significa tendere alla conoscenza amorosa, ed è ben più forte dell’elevare la mente, della meditazione umanamente intesa. La conoscenza amorosa è quella del cuore: relazione di cuore a cuore, di persona a persona. E l’espressione «cuore a cuore» non vuole essere romantica, ma sta a significare quell’atteggiamento di Giovanni in intimo colloquio sul petto di Gesù che permette, secondo Origene, di cogliere il senso profondo dell’Evangelo. Così la docilità si fa elevazione e l’elevazione attenzione.

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XXIV GIORNO

Attenzione è mettersi in atteggiamento di ascolto verso il Signore che ci parla. È un’attenzione non solo al messaggio, ma anche a chi pronuncia il messaggio.

Maria di Magdala nella sua attenzione all’ortolano, al modo in cui l’ha chiamata per nome, è riuscita a percepire la presenza del Signore e a vedere Gesù (Gv 20.15-16). Ciò che ci viene richiesto nel dialogo misterioso con Dio è di essere innanzitutto uditori attenti. Si crea così tra il fedele e la Parola una comunicazione misteriosa e intima, e tutto l’essere umano si presenta davanti a Dio.

Ambrogio diceva che quest’attenzione dev’essere tale che «tutta la persona sia tesa all’ascolto del Verbo››, Parola e Persona. E J.A. Bengel, teologo protestante, così sintetizzava l’attenzione alla Scrittura: «Te totum applica ad textum, rem totam applica ad te!››.

     Nessuna negligenza nell’ascolto della Parola, perché «chi ascolta in modo non attento sarà colpevole– afferma Cesario di Arlesquanto colui che avrà lasciato cadere negligentemente per terra il corpo del Signore». Se l’attenzione è totale e l’abbandono completo, è facile allora l’adesione piena a Dio, poiché noi restiamo, come dice Gregorio Magno, «sospesi all’amore di Dio».

Queste disposizioni – badiamo bene e lo ripetiamo – sono necessarie, ma solo se lo Spirito le feconda esse diventano utili per raggiungere il vero scopo della lectio divina. Se chiediamo lo Spirito, se ci disponiamo a lui, sicuramente riceveremo l’illuminazione necessaria per leggere.

 

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