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Domenica di Pentecoste – Il Dio in cui crediamo è il Dio incognito che attraverso Gesù ci si è manifestato come amore nello Spirito Santo.

…Quando una chiesa si preoccupa di essere coerente con quello che diceva un secolo fa, cinque secoli fa, dieci secoli fa ha una preoccupazione carnale. La continuità secondo lo Spirito procede per rotture, come la vita.
Una continuità meccanica, un «continuum» senza fratture è diabolico.

 
Anche la nostra vita umana è fatta, se è creativa, di improvvise rotture non di coerenze formali, estrinseche che ci immobilizzano alla stregua del principio di identità.

La vita è sempre diversa. Lo sentiamo.
La nostra identità è piuttosto quella del macigno e ci rende rigidi.
Questa identità nuova, però, che viene dallo Spirito, è l’identità a cui ci abbandoniamo. Gesù Cristo non è un punto di riferimento al passato, diventa semmai un segno del futuro.
Infatti chi crede in Gesù secondo lo Spirito non pensa al Cristo che abbiamo formulato e modellato nelle nostre teologie e nella nostra iconografia e nella nostra liturgia, pensa al Cristo del futuro. Chissà com’è?
Nel suo volto ci sono i volti di tutti gli uomini. Egli è nero, bianco, giallo. Non è un semita, è l’uomo.
Quando verrà, nella sua pienezza di risorto, sarà la pienezza dell’umanità. Così si legge Cristo secondo lo Spirito, senza armi in mano.
La nostra memoria è fatta di professioni di fede fatte con la spada in mano, con la tendenza a scomunicare gli altri che non la pensano come noi.
Non mi meraviglio nemmeno, perché abbiamo vissuto l’aspirazione dello Spirito Santo dentro i quadri dell’aggressività che abbiamo ereditato e che ancora sono fortissimi in noi.
Se ci si pensa bene – e questo è l’aspetto più angoscioso ma anche più liberante di una fede secondo lo Spirito Santo – ogni volta che si è definito un dogma si è ammazzato qualcuno. Non che la definizione non abbia un senso, ma se non è secondo lo Spirito essa è l’espressione della volontà di dominio, anche di dominio su Dio.
Invece, il Dio che amiamo è un Dio incognitus, un Dio sconosciuto per cui Egli abita al di là di tutte le barriere che la nostra intelligenza e la nostra immaginazione hanno costruito nelle varie parti del mondo.
 Il Dio in cui crediamo è il Dio incognito che attraverso Gesù ci si è manifestato come amore nello Spirito Santo.
È importante pensare allo Spirito Santo non come ad un di più, ma come alla cifra legata al mistero di Dio.
Lo Spirito Santo è quella potenza che scrive il nome di Dio e poi lo cancella subito. Questo movimento interno ci rende capaci di una lingua che è la lingua ecumenica del domani a cui aspiriamo.
Noi vediamo, per tornare all’attualità, come la fine delle piramidi ha fatto riemergere le tribù. Ognuno ricerca la lingua nativa
 I paesi dell’Est europeo ritrovano, ciascuno, la propria lingua.
Perfino nell’Italia ciascuno ritrova la sua lingua.
C’è come il bisogno di riappropriarsi della lingua come intimità, come luogo di identità, ma questa è identità che perde l’universalità.
La vera lingua è quella che è fedele alla nostra indole nativa ma è insieme universale. È la conciliazione degli opposti.
La lingua universale, l’esperanto dello Spirito, non la costruiremo mai.
Essa non può essere una costruzione dall’esterno, è una costruzione dall’interno, dal profondo, in quel crogiuolo che vi ho detto essere il punto di unificazione di tutte le tribù della terra, in cui siamo tutti uguali.
Ciò che ci definisce non è ciò che abbiamo fatto ma ciò che sarebbe possibile fare.
Lo specchio della nostra identità è nell’arco del possibile non nella condensazione del già fatto, dove c’è anche la violenza sacralizzata e legittimata.
Capisco che non è facile passare dal riconoscimento nell’unità messianica della specie umana a provvedimenti concreti, empirici, quotidiani. Lo so. Si tratterà di mediare questa prospettiva, che riemerge stupendamente, con scelte concrete di ordine politico, economico.
 Non ci vuole molto a capire che quelle che abbiamo ora sono tutte dell’età di Babele. Anche l’unità d’Europa si sta facendo secondo un criterio di omertà e col desiderio di alzare una cintura. di allargare il fossato di Gerico in modo che nessun negro lo passi oppure passino quelli di cui abbiamo bisogno perché lavorino.
 Questa è la nostra unità babelica.
Noi dobbiamo agire secondo lo Spirito, pur sentendo che questo è un rischio immenso, con quella capacità creativa, con quello spirito di avventura che i primi discepoli ebbero. Siamo alle soglie di questo tempo.

Senza voler riecheggiare nessun linguaggio millenaristico, calandomi nella misera nostra arida cronaca, sono convinto che quello che ho detto getta qualche luce nei conflitti che viviamo oggi e ci apre l’animo a speranze che ieri non erano sperabili, a speranze che davvero i muri cadano, che davvero i popoli si uniscano, che veramente i potenti siano confusi. E possibile, ma occorre che questa speranza sia pagata con le nostre scelte….  (Ernesto Balducci, da: “Gli ultimi tempi” – Vol. 1 anno A)

Due novità ci vengono mostrate nelle Letture di oggi: nella prima, lo Spirito fa dei discepoli un popolo nuovo; nel Vangelo, crea nei discepoli un cuore nuovo.
Un popolo nuovo. Nel giorno di Pentecoste lo Spirito discese dal cielo, in forma di «lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno […], e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» (At 2,3-4). La Parola di Dio così descrive l’azione dello Spirito, che prima si posa su ciascuno e poi mette tutti in comunicazione. A ognuno dà un dono e tutti raduna in unità. In altre parole, il medesimo Spirito crea la diversità e l’unità e in questo modo plasma un popolo nuovo, variegato e unito: la Chiesa universale. Dapprima, con fantasia e imprevedibilità, crea la diversità; in ogni epoca fa infatti fiorire carismi nuovi e vari. Poi lo stesso Spirito realizza l’unità: collega, raduna, ricompone l’armonia: «Con la sua presenza e la sua azione riunisce nell’unità spiriti che tra loro sono distinti e separati» (Cirillo di Alessandria, Commento sul vangelo di Giovanni, XI, 11). Cosicché ci sia l’unità vera, quella secondo Dio, che non è uniformità, ma unità nella differenza.
Per fare questo è bene aiutarci a evitare due tentazioni ricorrenti. La prima è quella di cercare la diversità senza l’unità. Succede quando ci si vuole distinguere, quando si formano schieramenti e partiti, quando ci si irrigidisce su posizioni escludenti, quando ci si chiude nei propri particolarismi, magari ritenendosi i migliori o quelli che hanno sempre ragione. Sono i cosiddetti “custodi della verità”. Allora si sceglie la parte, non il tutto, l’appartenere a questo o a quello prima che alla Chiesa; si diventa “tifosi” di parte anziché fratelli e sorelle nello stesso Spirito; cristiani “di destra o di sinistra” prima che di Gesù; custodi inflessibili del passato o avanguardisti del futuro prima che figli umili e grati della Chiesa. Così c’è la diversità senza l’unità. La tentazione opposta è invece quella di cercare l’unità senza la diversità. In questo modo, però, l’unità diventa uniformità, obbligo di fare tutto insieme e tutto uguale, di pensare tutti sempre allo stesso modo. Così l’unità finisce per essere omologazione e non c’è più libertà. Ma, dice San Paolo, «dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2 Cor 3,17).
La nostra preghiera allo Spirito Santo è allora chiedere la grazia di accogliere la sua unità, uno sguardo che abbraccia e ama, al di là delle preferenze personali, la sua Chiesa, la nostra Chiesa; di farci carico dell’unità tra tutti, di azzerare le chiacchiere che seminano zizzania e le invidie che avvelenano, perché essere uomini e donne di Chiesa significa essere uomini e donne di comunione; è chiedere anche un cuore che senta la Chiesa nostra madre e nostra casa: la casa accogliente e aperta, dove si condivide la gioia pluriforme dello Spirito Santo.
E veniamo allora alla seconda novità: un cuore nuovo. Gesù Risorto, apparendo per la prima volta ai suoi, dice: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,22-23). Gesù non condanna i suoi, che lo avevano abbandonato e rinnegato durante la Passione, ma dona loro lo Spirito del perdono. Lo Spirito è il primo dono del Risorto e viene dato anzitutto per perdonare i peccati. Ecco l’inizio della Chiesa, ecco il collante che ci tiene insieme, il cemento che unisce i mattoni della casa: il perdono. Perché il perdono è il dono all’ennesima potenza, è l’amore più grande, quello che tiene uniti nonostante tutto, che impedisce di crollare, che rinforza e rinsalda. Il perdono libera il cuore e permette di ricominciare: il perdono dà speranza, senza perdono non si edifica la Chiesa.
Lo Spirito del perdono, che tutto risolve nella concordia, ci spinge a rifiutare altre vie: quelle sbrigative di chi giudica, quelle senza uscita di chi chiude ogni porta, quelle a senso unico di chi critica gli altri. Lo Spirito ci esorta invece a percorrere la via a doppio senso del perdono ricevuto e del perdono donato, della misericordia divina che si fa amore al prossimo, della carità come «unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato» (Isacco della Stella, Discorso 31). Chiediamo la grazia di rendere sempre più bello il volto della nostra Madre Chiesa rinnovandoci con il perdono e correggendo noi stessi: solo allora potremo correggere gli altri nella carità.
Chiediamolo allo Spirito Santo, fuoco d’amore che arde nella Chiesa e dentro di noi, anche se spesso lo copriamo con la cenere delle nostre colpe: “Spirito di Dio, Signore che sei nel mio cuore e nel cuore della Chiesa, tu che porti avanti la Chiesa, plasmandola nella diversità, vieni. Per vivere abbiamo bisogno di Te come dell’acqua: scendi ancora su di noi e insegnaci l’unità, rinnova i nostri cuori e insegnaci ad amare come Tu ci ami, a perdonare come Tu ci perdoni. Amen”. ( Papa Francesco)

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