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Don Giuseppe Dossetti : spiritualità e politica

Non si può sostenere una compatibilità di principio tra esperienza di fede e politica, nè una incompatibilità assoluta; ci può essere invece un servizio episodico, più o meno lungo, ma sempre limitato nell’arco dell’esistenza. La realtà dei politici di professione, che sono tali da trenta o quarantanni, credo che non la si possa ammettere. Non si tratta di una ragione moralistica, ma di un principio. […]
La vita politica è una vita molto dispersiva. Ho fatto una grande fatica per tenermi in mano. Sono episodi personali, ma che parlano, proprio per questo, da sè.
 La vita politica è un servizio totale, globale, estenuante, con orari impossibili; anche se si disciplina seriamente, richiede una disponibilità ad lavoro che è logorante, logorante lo spirito. Accadeva, faccio un esempio, che il buon Gonella fissasse la direzione del partito alle dieci di sera; si cominciava e si andava avanti sfiniti, fino alla quattro del mattino […].
Ero estenuato anche dal merito dei problemi trattati. Al mattino andavo a messa, l’unica cosa che potevo fare era di piantarmi lì, nel banco, e ascoltare. Magari ascoltavo anche due o tre messe, ma proprio come un somaro, come il giumento del salmo. Pur tenendomi in mano così, non potevo resistere per molto tempo; a meno di non prendere tutto con una superficialità suprema. Allora si può vivere anche degli anni in politica, ma non si fa più politica.
Il pensiero, la responsabilità, il tormento, il ritorno continuo sui problemi supremi, tutto ciò si incrocia, si accavalla.
 Il Signore si può servire per un momento di noi. Dobbiamo appunto pensare che Lui fa come con i limoni spremuti, ci butta poi nel cestino. A questo dobbiamo essere prontissimi.
 La politica, per contro, educa a un bisogno di fare, a una necessità di comandare, ad una mentalità che sancisce il primato dell’azione e della gestione, che è contraddittoria con una vita spirituale comunque concepita
. Però nonostante tutto dico: non c’è incompatibilità di principio tra fede e politica, può accadere che a volte siamo chiamati a fare politica, in una circostanza, in un determinato momento, per un certo breve periodo, episodicamente.
È un servizio che in un certo momento può esserci chiesto, purché noi siamo ben convinti che il servizio deve poi durare poco.
 Ci sono amici in parlamento, che hanno pensato il loro servizio, anche per confidenze che ho avuto, come un servizio quarantennale.
Rispetto alla grande battaglia che si combatteva in quegli anni, io ho perduto.
Non è questo che conta.
 Io ritengo che, per certi aspetti, anche politici, quello che è stato fatto, abbia avuto una certa efficacia in un certo momento.
Non è stata la delusione per l’insuccesso personale a convincermi che dovevo andarmene.
 Questo l’ho detto più volte, e lo confermo oggi più a ragion veduta.
A convincermi che dovevo andarmene sono stati dei giudizi storici su una certa situazione della politica in Italia. Essi non riguardavano soltanto l’inefficacia della politica che si stava facendo e alla quale non credevo di poter consentire. Vedevo già allora con chiarezza dove si poteva andare a finire, perché certi pericoli, che adesso sono diventati delle catastrofi, li avevo visti nettissimamente nel 1946.
Quando ho lasciato l’attività politica nel 1951 ero convinto che non si poteva operare diversamente in quelle condizioni del nostro Paese e del mondo cattolico italiano . L’ostacolo maggiore stava in una certa cattolicità che c’era in Italia; i motivi dell’insuccesso fatale venivano da lì.
Anche nella Chiesa non mi facevo illusioni.
Per la mia professione di canonista sapevo cosa era la Chiesa e cosa poteva essere in determinate situazioni. Non c’è stata delusione, neanche lì, neanche nella Chiesa. Ne prendevo atto con semplicità, e non mi stupivo di niente. Di fatto non mi sono mai lamentato con nessuno.
La decisione di smettere ogni attività politica è venuta dalla convinzione che bisognasse operare più profondamente, a monte, in una cultura del tutto nuova e in una vita cristiana coerente. Poi il passaggio è stato radicalizzato; è passata anche la cultura e rimasta solo la vita cristiana.
Spesso questo rapporto tra fede e politica diventa lacerante. Capisco come da una parte si senta una responsabilità immediata che non si può lasciare, dall’altra ci sia l’urgenza di una scelta diversa. Anche io, quando sono stato membro della commissione della Costituente, ho sentito questo bisogno. Fatta la Costituzione me ne volevo andare, però ho ricevuto l’imposizione di proseguire, di rinnovare il mandato, che non ho tuttavia portato a termine.
Viviamo in una crisi epocale. Io credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Sempre più ci sto pensando. Sono convinto che lo scenario culturale, intellettuale, politico non ha ancora esplicitato tutte le sue potenzialità. Noi dobbiamo considerarci sempre di più alla fine della terza guerra mondiale; una guerra che non è stata combattuta con spargimento di sangue nell’insieme, ma che pure c’è stata in questi decenni.[…]
Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolio totale. In più c’è la grande incognita dell’Islam, una incognita in qualche modo imprevedibile. [… ]
Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture.
Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica, né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente, che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è reale; non è pessimista, perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio.
La speranza non vien meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile, certamente non di potere. Questa speranza, globale in un certo senso, è speranza per tutto il mondo, perché la grazia di Dio c’è, perché Cristo c’è , e non la localizza in niente, tanto meno in noi.
L’unico grido che vorrei fare sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancora più grosse e più globali e dei rimescolii più totali, attrezzatevi per tale situazione. Convocate delle giovani menti che siano predisposte per questo e che abbiano, oltre che l’intelligenza, il cuore, cioè lo spirito cristiano. Non cercate nella nostra generazione una risposta , noi siamo veramente solo dei sopravvissuti.
 

XXIX Domenica del T.O.: "chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti"

La richiesta dei fratelli Giacomo e Giovanni a Gesù, di sedere uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra nella sua gloria, suona subito come palesemente impertinente; addirittura stupisce, anzi minaccia di suscitare indignazione. Di fatto, già allora gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Gesù non si sdegnò, né con i due fratelli né con gli altri dieci. Corresse tuttavia gli uni e gli altri.
La richiesta è sbagliata, certo; e tuttavia per quell’errore Gesù non scomunica i due fratelli; li corregge invece con dolcezza, come si correggono i bambini. Che i bambini chiedano cose sbagliate accade abbastanza spesso; essi per lo più non sanno bene quello che chiedono. Proprio questa fu la prima risposta di Gesù ai due fratelli: Voi non sapete ciò che domandate.  …
Potete bere il calice che io bevo?
Subito gli rispondono di sì, senza neppure cercare di capire che cosa Gesù volesse dire con quella espressione oscura; troppo forte e perentorio è il loro desiderio di ottenere comunque quello che chiedono. Gesù risponde che avranno quello che non hanno chiesto; quanto ai primi posti, non sta a Gesù decidere; è lasciato alle mani di Dio.
 II desiderio buono non è quello di avere un posto accanto a Gesù; ma quello di camminare al suo seguito. Se vi occupate del posto, è inevitabile che litighiate; vi occupate infatti di ciò che è esteriore.
Finché al vertice dei vostri pensieri c’è quello che sta fuori, è inevitabile che tra voi accadano litigi.
Gesù non si sdegnò con i due; capì che erano ancora come bambini.
Neppure si sdegnò con gli altri dieci.
 Si sdegnarono però loro con i due fratelli, non avendo compreso il carattere infantile della loro richiesta. Erano infatti anche loro infantili. Gesù non fece alcuna differenza tra loro; li chiamò infatti tutti a sé e li corresse con pazienza. …
Gesù dunque li chiamò tutti intorno a sé e li istruì.
Per istruirli, prese spunto da ciò che accade nelle nazioni, e presso i capi delle nazioni; essi le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere.
Il comando dunque assume la forma del dispotismo.
 Appunto per differenza rispetto a quel che accade presso le nazioni Gesù fissa la legge nuova, che deve vigere tra i suoi discepoli: chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Alla base della legge nuova sta la testimonianza di Gesù stesso, il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.
Nel suo racconto della cena Giovanni riferisce della lavanda dei piedi; avete capito quello che vi ho fatto? – chiede Gesù dopo avere compiuto quel gesto -; il comandamento nuovo dell’amore assume appunto la forma del comandamento di servire; e la norma del servizio è quella disposta da Gesù stesso.
Il Signore, paziente con i suoi, abbia pazienza anche con noi, corregga le nostre richieste arroganti e inconsapevoli; ci insegni ad amare il servizio e la sequela di lui piuttosto che un posto accanto a lui.
 «Tra voi, però, non dev’essere così!»  Quindi, non è questione semplicemente di umiltà piuttosto che di superbia. Secondo me, non è questo il centro del Vangelo odierno. Si tratta piuttosto di credere che ci si possa effettivamente realizzare da uomini e donne del nostro tempo, impostando uno stile di vita conforme alla logica dell’amore evangelico (cf 1Cor 13), ossia alla logica di chi ama, serve, si umilia e condivide, perdona… come Gesù.
 In gioco è il credere che si possa essere felici oggi, cercando di vivere con Gesù e come lui. ( C.M. Martini)

Don Giuseppe Dossetti e il Concilio Ecumenico Vaticano II

L’11 febbraio 1962 si apre il concilio ecumenico Vaticano II, e in novembre don Giuseppe è chiamato a Roma dal cardinale Lercaro. La sua collaborazione sarà preziosa per la conoscenza delle questioni teologiche e pastorali che il Concilio affrontava, ma si rivelerà decisiva per un altro profilo: l’esperienza fatta negli anni dell’impegno politico, la preparazione giuridica e canonistica, la conoscenza dei meccanismi assembleari gli permisero infatti di fornire all’assemblea conciliare gli strumenti per esprimere le proprie intuizioni di rinnovamento.
 Riportiamo alcuni passi della prolusione inaugurale per l’anno accademico 1994-’95 dello Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia sul Concilio Vaticano II.
Ecco dunque come il cuore di Papa Giovanni ha concepito, ha pensato, ha voluto il Concilio: non tanto come un’assise normativa, ma piuttosto come uno spettacolo cosmico, un evento, un’anticipazione dell’eterna e universale liturgia, un grande atto di culto, di rendimento di grazie a Dio e di implorazione per tutti: per i fratelli in Cristo e per l’universa umanità.
Ma intanto i Padri ebbero modo di conoscersi, di responsabilizzarsi e di organizzarsi in raggruppamenti, avviando il processo più importante e più duraturo del Vaticano Il, la formazione cioè di una coscienza assembleare e collegiale e facendo uscire il vescovo medio dagli orizzonti ristretti ai quali era assuefatto per sentirsi effettivamente coinvolto nel servizio della Chiesa universale .
E d’altra parte il Papa, per conto suo, provvedeva con vari suoi atti alla concentrazione dei troppi schemi preparatori in venti argomenti, alla disciplina del lavoro durante l’intersessione, alla nomina per questo di una commissione permanente di coordinamento, a disporre un Ordo agendorum per il futuro e a ribadire i punti centrali della sua Allocuzione inaugurale.
Il che consentì al Concilio di continuare ordinatamente i suoi lavori anche dopo la morte del Papa e la successione di Paolo VI: conservando, per quanto era possibile, l’ispirazione iniziale giovannea, e così restando, sia pure non in tutto e non sempre con piena coerenza, fedele al grande balzo in avanti (auspicato dalla Gaudet Mater Ecclesia) che doveva portare la Chiesa fuori dell’epoca tridentina e avviarla per nuove vie più conformi alle istanze ecclesiali, espresse e coltivate negli ultimi decenni, soprattutto dal movimento biblico, dal movimento liturgico e da quello ecumenico: e con questo rendere il sacro deposito sempre più efficace rispetto ai nuovi problemi e ai nuovi bisogni.”
Per chi volesse leggere il testo della prolusione di Don Giuseppe Dossetti nella sua interezza basta aprire il seguente link:  Prolusione inaugurale Studio Teologico Interdiocesano di Reggio Emilia 

Il fuoco del Concilio arde ancora

(La Stampa, 14 ottobre 2012)
Gli eventi strettamente legati al Concilio Vaticano II – e simbolicamente rappresentativi dell’insieme dei lavori, di tutto il travaglio precedente e della sua portata universale – occupano un periodo di tempo di sette anni, dall’annuncio ad opera di papa Giovanni il 25 gennaio 1959, alla solenne apertura l’11 ottobre 1962, fino alla conclusione presieduta da Paolo VI l’8 dicembre 1965.
 Questo fa sì che gli anniversari significativi si moltiplichino e, con essi, le occasioni per fare memoria di quell’evento ecclesiale definito da Giovanni Paolo II «La più grande grazia del XX secolo», con ciascuna ricorrenza contrassegnata da una propria specificità.
Allora, nel 50° dell’apertura del concilio che ricordiamo in questi giorni, varrebbe la pena soffermarsi maggiormente sulle attese e le speranze suscitate da quell’assise, lasciando la riflessione sui documenti conciliari in sé e la loro interpretazione e ricezione ad altri anniversari più appropriati.
 Come ha vissuto la Chiesa nei quasi quattro anni tra l’annuncio del Concilio e la sua apertura?
 E come il mondo – la società, le nazioni, le culture, la altre confessioni cristiane, le diverse religioni… – ha percepito la gestazione di quell’evento?
 Non si tratta di intraprendere qui una pur doverosa analisi storica di quel periodo, ma di cercare di discernere i “segni” di quei tempi, di una stagione ecclesiale e mondiale contrassegnata dalla speranza, dalla volontà di non ripiombare più nelle paure e negli orrori di due guerre mondiali, dal desiderio di uscire dalla stretta di un mondo bipolare impegnato nella guerra fredda.
 Così parla di quegli anni papa Giovanni nella sua allocuzione Gaudet mater ecclesia: dopo l’annuncio del concilio «Si accese in tutto il mondo un enorme interesse, e tutti gli uomini cominciarono ad attendere con impazienza la celebrazione del Concilio. In questi tre anni è stato svolto un lavoro intenso per preparare il Concilio, con il programma di indagare più accuratamente ed ampiamente quale fosse in questa nostra epoca la condizione della fede, della pratica religiosa, dell’incidenza della comunità cristiana e soprattutto cattolica. Non a torto questo tempo speso nel preparare il Concilio Ci sembra sia stato quasi un primo segno e dono della grazia celeste».
È a partire da queste reazioni e dall’aver visto all’opera anche vescovi, teologi, pensatori fino ad allora tenuti ai margini se non osteggiati all’interno della Chiesa, che il papa poté rassicurare tutti sull’errata visione dei «profeti di sventura che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo».
 Illusioni di un papa visionario?
Entusiasmo eccessivo verso i tempi moderni e le loro potenzialità?
  Se, come dicevo, ci atteniamo a quegli anni, non si può negare che queste speranze, queste attese erano quelle di tantissimi uomini e donne di tutto il mondo e di molti cristiani e cattolici di ogni età: era come se il papa avesse dato voce a desideri inespressi, avesse rattizzato il fuoco del Vangelo che covava sotto la cenere, avesse fatto soffiare il vento dello Spirito capace di rimuovere nebbie e nuvole: come non ripensare a quella magica, emblematica notte dell’11 ottobre 1962, quando anche la luna si liberò della nuvola che la nascondeva e sorrise all’immensa folla che con le fiaccole accese ascoltava l’inattesa parola di una padre buono che si prende cura dei suoi figli fino ad accarezzarli nella loro infanzia?
 Era convinzione di papa Giovanni che «illuminata dalla luce di questo Concilio, la Chiesa si accrescerà, come speriamo, di ricchezze spirituali e, attingendovi il vigore di nuove energie, guarderà con sicurezza ai tempi futuri. Infatti, introducendo opportuni emendamenti ed avviando saggiamente un impegno di reciproco aiuto, la Chiesa otterrà che gli uomini, le famiglie, le nazioni rivolgano davvero le menti alle realtà soprannaturali».
  C’è in queste parole la costante attenzione per un annuncio rinvigorito e credibile della “buona novella”, custodita dalla Chiesa non come patrimonio geloso, ma come dono per l’umanità. E, accanto a questo, la particolare attenzione per i “fratelli separati” (come venivano chiamati allora i cristiani di altre confessioni) e per quel mondo ebraico di cui papa Roncalli aveva saputo ascoltare il grido e che aveva aiutato nell’ora della prova più tragica: l’istituzione di un apposito “Segretariato per l’unità dei cristiani”, l’apertura dell’assemblea sinodale a osservatori di altre confessioni, la cura assidua a non pensare mai senza gli altri o, peggio ancora, contro gli altri fecero sì che le attese del popolo cattolico si intrecciassero con quelle di credenti e non credenti di ogni latitudine, in un’epoca in cui della globalizzazione non esisteva nemmeno il termine.
 Oggi, a cinquant’anni dall’apertura di quell’evento di Chiesa, si può constatare che restano ancora molti problemi urgenti, nuovi o antichi, e non è venuta meno la necessità di una parola ecclesiale fedele alla tradizione ma capace di essere compresa e vissuta oggi.
C’è e ci sarà sempre bisogno di dialogo, di confronto tra Chiese situate in contesti socio-politici differenti e tributarie di culture paradossalmente sempre più “meticce” e al contempo globalizzate. In questo senso, oggi come allora, è necessaria una Chiesa comunionale nella quale la sinodalità – cioè la capacità e la volontà di camminare insieme, di fare “syn-odos”, Sinodo – si riveli la modalità quotidiana per cui tutti sono soggetti responsabili, secondo l’antico principio ecclesiale: «Su ciò che riguarda tutti, tutti devono essere ascoltati». Si potrà dire che resta ancora molto da attuare del Concilio: è inevitabile, dato che quell’assise volle farsi eco del Vangelo e che il Vangelo è sempre ben lungi dall’essere attuato pienamente, ma ciò che cinquant’anni fa è stato acceso come fuoco nel cuore dei credenti per ora arde e non pare in procinto di spegnersi.
                                                                                                                                                         Enzo Bianchi

I concili nei secoli
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I° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



I° CONCILIO DI EFESO



I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



CONCILIO DI BASILEA



V CONCILIO LATERANENSE


CONCILIO DI TRENTO



CONCILIO VATICANO I°

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