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A 11 anni dalla strage delle torri gemelle

11 anniversario della strage dell’11 Settembre.
 Oggi non ci saranno presidenti, né discorsi politici per celebrare la memoria.
Verranno letti solo i nomi delle vittime e si allungheranno i momenti di silenzio. Alcuni studi indicano in oltre mille le vittime del post 11 settembre e tra i 20.000 e i 40.000 i volontari e i lavoratori che hanno subito interventi sanitari.
 I vigili del fuoco la settimana scorsa hanno inciso altri 9 nomi di pompieri morti in seguito alle esalazioni respirate durante il crollo delle torri.
Scriveva Enzo Bianchi l’anno scorso sulla “Stampa”  
“Nulla sarà più come prima!”. Quante volte sentimmo ripetere questa frase e altre simili all’indomani dell’11 settembre 2001.
Quante voci si aggiunsero al coro dei profeti di sventura che consideravano ineluttabile uno scontro di civiltà alimentato dall’integralismo religioso. Quante letture di qualsivoglia fenomeno sociale vennero fatte sotto l’unica prospettiva di un terrorismo globale. Quanto spesso è stata data per scontata e puntuale una svolta storica che avrebbe stabilito un “prima” e un “dopo” assoluti nell’approccio ai problemi più complessi, che fossero di natura geopolitica o economica, di globalizzazione o di confronto tra mondi culturali o religiosi, di giustizia internazionale o di concezione della guerra.
Ma oggi  … possiamo interrogarci con un minimo di distanza critica da quei tragici eventi, che in realtà proprio per la loro gravità richiederebbero un giudizio storico ancor più decantato: “Davvero il mondo non è più stato lo stesso?”. Se giudichiamo a partire dalle risposte immediate date all’attacco terroristico alle Torri gemelle e dai molti effetti che queste reazioni continuano a produrre, potremmo dire che ben poco è cambiato: come in ogni guerra tradizionale fin dai tempi più antichi dell’umanità, a violenza si è risposto con la violenza; come sempre la verità è stata la prima vittima del conflitto; analogamente a quanto così spesso è accaduto nella storia, si è cercato di motivare religiosamente la propria attività bellica; ancora una volta l’operazione di demonizzazione dell’avversario ha identificato qualsiasi membro del gruppo sociale, etnico o religioso antagonista in un nemico da contrastare a prescindere da qualsiasi responsabilità personale: anche per questo, come ormai tragicamente scontato a partire dal secondo conflitto mondiale, il numero di vittime civili è diventato enormemente superiore a quello dei militari belligeranti. In questo senso l’11 settembre ha magari mutato l’estensione geografica, la complessità dei mezzi e dei metodi di combattimento, la composizione dello spettro delle alleanze in una tipologia di conflitto apparentemente inedita, ma questi mutamenti sono attribuibili anche ad altri fenomeni – la globalizzazione, specie nel campo delle informazioni e della tecnologia; il crollo di un muro che divideva il mondo in due blocchi antagonisti, l’ingiustizia nella ripartizione delle risorse del pianeta e la loro progressiva scarsità… – che non sono certo nati con l’attacco al cuore simbolico della prima potenza del mondo “occidentale”. Del resto, lo stesso terrorismo di matrice islamica non era certo nato in un rifugio segreto dell’Afghanistan o nella cabina di pilotaggio di un aereo civile.
 
Eppure, molte cose sono cambiate dopo l’11 settembre, anche se in una direzione diversa di quella preconizzata – o addirittura auspicata – da alcuni in quei tragici giorni. Innanzitutto si è affrontato con lucido coraggio un discernimento sulla violenza di cui le religioni possono essere – o sono state – portatrici e strumento. In questo va riconosciuto il ruolo profetico e trainante svolto da papa Giovanni Paolo II fin dall’indomani dell’attacco alla Torri gemelle: le sue iniziative, a partire dall’incontro delle religioni per la pace ad Assisi nel gennaio 2002, hanno costituito un antidoto alla dispersione e alla divisione di Babele. Così, in un mondo sempre tentato di rifuggire le differenziazioni e di esaltare le contrapposizioni, il fatto che uomini di ogni lingua, razza, popolo, nazione e religione continuino ancora oggi ad incontrarsi e a lavorare per affermare con risolutezza il loro desiderio di pace è un segno di grande speranza e costituisce un evidente cambiamento nell’approccio alle tante situazioni di conflitto che non sono certo scomparse dall’orizzonte dell’umanità. “Convivere in pace … è il volere di Dio, ed è il nostro dovere su questa terra”, ricordava anche Obama nel suo memorabile discorso rivolto dal Cairo all’insieme della “comunità” musulmana, invocando un’assunzione condivisa delle responsabilità etiche nella consapevolezza di appartenere a un’unica comunità umana.
Né si può dimenticare come, proprio all’alba del nuovo millennio, prendeva l’avvio l’ambizioso progetto del Consiglio ecumenico della chiese di un “decennio per vincere la violenza” in tutte le sue forme, grazie al quale i cristiani hanno non solo potenziato le loro attività sul terreno per sconfiggere la violenza con metodi nonviolenti, ma hanno anche proseguito l’elaborazione di una teologia della “pace giusta”, capace di porre fine alla teoria della “guerra giusta”, troppo a lungo alimentata anche in ambito cristiano.
E come tacere la “novità nella continuità” testimoniata da società civili e dalle loro istanze laiche che, come la Norvegia dopo l’orribile massacro dell’isola di Utoya, decidono di perseverare in atteggiamenti e legislazioni aperte e dialogiche, nonostante la tragica “sconfitta” patita in quell’evento? È la tenace affermazione del fatto che un certo modo di vivere lo si è consapevolmente assunto perché lo si ritiene il più consono all’autentica qualità della convivenza umana e della dignità di tutti: ci si rifiuta di rispondere alla barbarie con la barbarie e ci si impegna nella valorizzazione dell’umanità presente in tutti gli esseri umani, anche in quelli dal comportamento più abietto.
Che molte cose siano cambiate in questi dieci anni, ma non nell’ineluttabile direzione conflittuale intravista allora, lo dimostrano anche le due macroscopiche problematiche che affrontiamo in questi mesi nella loro fase acuta: la crisi finanziaria e la cosiddetta “primavera araba”. Di questi fenomeni complessi e dalle radici ben più profonde di quanto siamo riusciti fin qui a discernere, tutto si può dire, ma non che si muovono nel filone della contrapposizione in base a categorie religiose o dello scontro di civiltà, a meno di non credere che la finanza sia la longa manus per l’affermazione di un credo fideistico o di voler annoverare i giovani arabi nel numero degli “occidentali” solo perché fanno uso anche di tecnologie ormai globali.
Davvero possiamo affermare che oggi più che mai il dialogo resta un’istanza che abita l’immensa maggioranza degli abitanti del pianeta terra, divenuto villaggio globale: un’istanza ineludibile nella nostra vita quotidiana, fatta ormai di un intreccio di esistenze tra simili e diversi. Per questo va richiesto a chi ha autorità e autorevolezza all’interno del proprio mondo religioso e culturale, e va praticato da ciascuno nel proprio ambito per cercare di tradurre un dato sociologico irreversibile in nuove articolazioni della convivenza civile, della giustizia e del rispetto dei diritti di ogni persona. Il nostro vissuto, infatti, non è determinato da proclami o da scontri di civiltà, ma dall’intersecarsi quotidiano di rapporti personali e familiari, di lavoro, di svago, di attese e di fatiche per un futuro migliore per sé e per le generazioni a venire.

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