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V Domenica del T.O – Metterci dinanzi al mondo come luce, collocarci dentro la storia degli uomini come sale che le dà sapore.

Gesù e i discepoliIl brano evangelico è costituito da due detti illustrati da due parabole, una costruzione redazionale ad arte a voler dire che il mandato ricevutodi essere sale della terra e luce agli uomini è soggetto, come dicono le parabole, alla possibilità del fallimento.
Non a caso, infatti, i due loghia sono stati posti da Matteo tra le beatitudini e il seguito del discorso della montagna, a rimarcare che sale e luce lo sono quei discepoli del tempo di Gesù e di ogni epoca, perseguitato o meno, fedeli allʼinsegnamento ricevuto nel beati voi e a quello della giustizia interiore.
 Voi siete il sale della terra.
Il sale, che rende i cibi saporosi e li conserva, nella tradizione giudaica diventa immagine della Legge, capace di rendere gustosa la vita e di conservarla.
Nellʼosservare la parola data e lʼalleanza con Dio, Israele è chiamato a vivere la propria sacerdotalità in mezzo alle nazioni: un compito che può essere frustrato quando i discepoli diventano sale insipido, stolti, disattendendo lʼinsegnamento ricevuto. In questo caso, al pari di alcuni scribi e farisei definiti stolti e ciechi (Mt 23, 6-7) e al pari del servo che non ha fatto fruttare il talento, i discepoli diventano già da adesso da gettare, cosa senza valore e significato alcuno né per Iddio né per gli uomini.
Voi siete la luce del mondo
In Gesù-luce è data una parola capace di rendere trasparente la persona umana e luminoso il suo buon operare. Per questa ragione il discepolo fedele a dio e alla sua giustizia è posto in alto, simile a città splendente sul monte (e il pensiero corre a Gerusalemme-luce) e simile a lucerna accesa che dallʼalto del lucerniere illumina tutti coloro che abitano la stanza unica della casa. Punto di riferimento che muove gli uomini a rendere gloria a Dio, il Padre da cui proviene ogni buon operare. (Giancarlo Maria Bruni).

***

….. Gesù dice che il sale non può perdere il sapore: e questa è una cosa importante! La prima cosa che dice è che non può perdere il sapore non soltanto che non deve, ma che non può perdere il sapore! Come la città posta sul monte, non può nascondersi! Come la lucerna fa luce, prima di tutto, per natura sua, e poi evidentemente non deve … deve cioè conservarsi nella realtà in cui è stata posta, deve restare.
È un discorso che è analogo a quello che fa continuamente il Vangelo di Giovanni: «restate in me». Noi siamo nel Cristo, dobbiamo rimanere nel Cristo; noi siamo risorti, dobbiamo vivere da risorti: il solito grande tema di tutto il Nuovo Testamento: siamo, una realtà che ci è donata e nella quale dobbiamo rimanere! Tutto è dato, e tutto è da realizzarsi, quello che è dato, nel nostro conservare il dono, puro dono di Dio! Restare. E restare per manifestarsi: restando ci si manifesta; ci si manifesta per tutto il mondo; si manifesta la Gloria di Dio in noi, adempiendo in questo modo alla nostra missione salvifica. (omelia di d. Umberto Neri, S. Antonio, 6.2.1972)

***

Per alcune domeniche il vangelo è estratto dal lungo “discorso della montagna” (cf. Mt 5,1-7,29), dove l’evangelista Matteo ha raggruppato diverse parole di Gesù, parole assai aperte a interpretazioni plurali.
Le prime parole di questo discorso sono le beatitudini (cf. Mt 5,1-12), parole programmatiche, di sostegno e consolazione ai discepoli: gli uomini e le donne che vivono le beatitudini, e dunque mostrano che Dio regna su di loro, che il regno di Dio in loro è venuto, possono anche essere significativi per quanti non sono discepoli di Gesù, per l’umanità tutta.
Per esprimere questa significatività Gesù ricorre a due metafore che ancora oggi non cessano di intrigare i cristiani, di spingerli a un’attualizzazione attraverso varie domande, che discendono da quella essenziale: come cristiani, cosa siamo in mezzo agli altri uomini e donne?
La prima immagine è quella del sale: “Voi siete il sale della terra”. Perché il sale? Il sale dà sapore, gusto; il sale conserva gli alimenti, ne impedisce la decomposizione; infine, il sale fertilizza la terra. Ecco perché Gesù dice ai discepoli: “Voi potete essere il gusto della vita, la qualità della convivenza e la fecondità della storia. Se siete autentici miei discepoli, lo sarete!”.
Parole, queste, che mi fanno arrossire, perché questo compito è grande e lo si può svolgere solo per grazia e a caro prezzo. Eppure essere sale fa parte della vocazione cristiana: dare vita, portare fecondità, essere nelle storia una forza che conserva il mondo.
Il compito è tanto grande quanto è poca la visibilità: il sale, infatti, è minuscolo e, messo nei cibi, scompare. Si dissolve in gusto e opera la conservazione contro ogni forza distruttiva. Certo – dice Gesù – “se il sale non sala più, se perde il suo sapore, non serve a nulla, e può essere buttato via e calpestato da tutti”. Snaturato nella sua qualità, non può più diventare sale.
I cristiani sono dunque ammoniti in modo eloquente: devono conservare il sale, la fede-fiducia in Dio e negli uomini, e allora realizzeranno la loro vocazione; se invece sono come gli altri, se si piegano al “così fan tutti”, allora sono insignificanti. Non è il peso o la grandezza del sale che conta, ma la sua capacità di dare gusto e salare.
La seconda metafora, nella stessa forma della prima, proclama: “Voi siete la luce del mondo”. Se il sale si doveva nascondere e dissolvere nella pasta per realizzare la sua funzione, la luce invece appare innanzitutto visibile, portatrice di vita piena e di salvezza.
Per questo il salmista confessava che la sua luce era il Signore: “Il Signore è mia luce e mia salvezza” (Sal 27,1), e questa luce del Signore si doveva riverberare su Gerusalemme, illuminarla fino a farla diventare luce e attrazione per tutte le genti (cf. Is 60,1-4).
Gesù vede la sua comunità autentica e fedele come luce – meglio, come riflesso della sua luce, perché lui è “la luce del mondo” (Gv 8,12) – e come una città ben visibile su un monte, non nascosta in una valle. Questa luce, la cui sola sorgente è Gesù Cristo, deve brillare nei suoi discepoli, e gli uomini devono accorgersene, scrutarla e compiacersi di essa.
Nessuna ostentazione trionfalista, nessun atteggiamento di imposizione, perché occorre vigilare sempre per combattere contro la tentazione di “praticare la giustizia davanti agli uomini al fine di essere ammirati da loro” (Mt 6,1). D’altra parte, nessun tentativo di nascondimento, nessuna omertà, nessuna ideologia di presenza minimalista: né ideologia del nascondimento, né ideologia della presenza visibile.
Se i cristiani vivono il Vangelo, se compiono azioni conformi al Vangelo e lo fanno con lo stile di Gesù, rendendo le loro opere non solo buone ma anche belle, allora gli uomini si porranno domande e riconosceranno il peso di Dio nella vita dei cristiani, ovvero daranno gloria al Padre che è nei cieli. Se Cristo è il sole, i cristiani – dice l’Apostolo Paolo – possono essere “astri che brillano di luce nel mondo” (Fil 2,15).
Ma su queste due metafore occorre un grande discernimento ecclesiale, per tenerle entrambe davanti agli occhi. A volte la chiesa è una piccola realtà presente come minoranza tra gli uomini non cristiani, quasi scompare, quasi non si vede più, eppure c’è ed è viva: c’è solo un po’ di cenere sopra la brace… A volte la chiesa, comunità piccola o grande, appare capace di eloquenza e di annuncio nel mondo.
È una città posta sul monte, una fonte di luce che, senza essere arrogante né autosufficiente, fa dono agli uomini e alle donne della sapienza (sale) e del senso (luce) che ha trovato nel Vangelo del Signore Gesù Cristo.(E. Bianchi)

***

……  È giusto che ci domandiamo in che modo possiamo ancora metterci dinanzi al mondo come luce, collocarci dentro la storia degli uomini come sale che le dà sapore.
La contraddizione fra le parole e i fatti, tra il messaggio creduto e la vita vissuta è così vasta che quasi ci prende lo scoraggiamento.
Ma penso che la fede consista anche in questa lotta contro le proprie debolezze e contro la tentazione di perdersi d’animo dinanzi a questa ostinata contraddizione tra la vita vissuta dai cristiani (e, nel suo insieme, dalla Chiesa) e la Parola del Signore.
Il nostro itinerario penitenziale consiste in questo: nel riprendere, senza veli, coscienza della ragione di questa contraddizione e nel ricercare i modi conformi al tempo perché si adempia la Parola del Signore, che ci vuole sale della terra e lampada accesa che fa luce a tutti.
Dobbiamo, anche oggi, guardarci con attenzione dalle tentazioni denunciate dai profeti e dal Vangelo. La prima di esse è un ripiegamento spiritualistico nella vita culturale, nella vita liturgica.
Abbiamo, nella nostra educazione, sentito con tanta insistenza ripeterci di stare attenti al mondo, di isolarci dal mondo, di dare importanza alla preghiera, di non venir meno alle pratiche di pietà stabilite dalla Chiesa, che, per quanto facciamo sforzi per liberarci dal peso di questa pedagogia, gli effetti li sentiamo sempre in noi.
Ci sentiamo cristiani nella misura in cui possiamo raccoglierci e ripetere con animo concorde la stessa professione di fede. Ma in realtà questo è il nostro errore fondamentale: perché la luce di Dio viene dopo le opere di giustizia; se non ci sono le opre di giustizia la gloria di Dio che contempliamo non è altro che una proiezione delle nostre presunzioni.
 Noi preghiamo Dio e Dio non ci risponde, e allora inventiamo la domanda e la risposta. Siamo chiusi dentro la nostra alienazione e cerchiamo di superare l’evidente contraddizione tra il corso della storia e le nostre prospettive, attribuendo la responsabilità del fallimento ai peccati del mondo, alle ideologie avversarie, e così ristabiliamo la nostra buona coscienza. Evitiamo così di far penetrare la spada del giudizio di Dio fino alla radice. Le nostre preghiere non significano nulla.
La preghiera che fa appello a Dio, che scuote il cuore di Dio è quella che promana dalle opere di giustizia. Se noi non spezziamo il pane all’affamato, o – più radicalmente, secondo la forte parola di Isaia – se non eliminiamo l’oppressione che è in mezzo a noi, non possiamo dire nessuna parola che non porti in sé il segno dell’alienazione. Mai come quando ci misuriamo con la Parola di Dio sentiamo che esiste un peccato che ci trascende, che ha fatto corpo, che è come il sottosuolo in cui si immergono le nostre radici.
Le nostre buone intenzioni urtano contro una specie di necessità immanente che le piega e le annulla. Ecco perché ci può venire la tentazione di ritirarci nel deserto, di sfuggire in qualche immaginaria Tebaide per ritrovare uno spazio di esistenza gestito da noi, senza connessioni con i meccanismi oggettivi della necessità… (Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – Vol 1 – anno A)
 
 
 

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