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Papa Francesco e la GMG di Rio

chiesadicefalu.itPapa Francesco  è rientrato a Roma, dopo aver concluso il suo impegno alla Giornata Mondiale della Gioventù in Brasile vissuta in modo innovativo e diverso soprattutto per il linguaggio, quello della gente semplice, capace di arrivare a tutti.
   Sul volo di andata non particolari incontri con i giornalisti per non inficiare , con le varie dichiarazioni –  che invece ci sono state al ritorno –,  minimamente le tematiche della Giornata Mondiale della gioventù.
 Infatti, continua ad avere vasta eco nel mondo, la lunga chiacchierata di Papa Francesco con i giornalisti presenti con lui sul volo che rientrava a Roma da Rio de Janeiro domenica notte. Umorismo , schiettezza e libertà hanno colpito la stampa, l’opinione pubblica.
Riportiamo in questo post il video dell’incontro con i giornalisti e i testi dei vari discorsi di Papa Francesco durante la Giornata Mondiale della Gioventù , nonché il testo integrale del la conferenza stampa con i giornalisti durante il viaggio di ritorno in un unico documento PDF riportato sotto, fruibile cliccando sull’icona.

XVII Domenica del T.O. – Pregare vuol dire denunciare implicitamente la nostra condizione di bisogno, la nostra fragilità creaturale.

preghieraNon c’è espressione umana più grande e insieme più ambigua della preghiera.
Per quanto l’atto del pregare susciti, chiunque lo esprima, anche il primitivo che si inchina dinanzi al suo totem, un profondo rispetto, tuttavia abbiamo l’obbligo di sottoporre anche questa espressione umana, così essenziale, al vaglio del nostro giudizio.
Paolo dice: “Quando eravamo bambini parlavamo da bambini, ora che siamo adulti dobbiamo parlare da adulti“.
Senza dare a questa qualifica di adulti nessun contenuto presuntuoso, essa implica quell’esercizio dello spirito critico senza del quale, in un mondo complesso, non riusciamo a vivere con autenticità.
C’erano tempi in cui la preghiera era inserita nei ritmi della vita collettiva, aveva le sue cadenze, i suoi simboli, le sue garanzie e anche le sue meschinità.
Proprio in questi giorni, occupandomi di una ricerca, mi sono trovato di fronte al costume medievale del Carroccio. In quel periodo storico i ‘Comuni’ italiani, tutti così fervorosi, nel momento della battaglia avevano un carro su cui si celebrava l’ eucaristia e poi ci si ammazzava.
Non dobbiamo lasciarci suggestionare dal richiamo fascinoso dei simboli sacri!
La preghiera porta a galla l’umanità cosi com’ è e non possiamo, sotto il pretesto che si. tratta pur sempre di preghiera, tutto giustificare e tutto far nostro.
  Le parole di Gesù, quando ci offre il modello della preghiera, così semplice, sono anche, indirettamente, un metro di giudizio su ogni altra forma di preghiera.
Collocandomi dentro la consapevolezza critica che è un connotato obbligatorio della nostra esperienza umana in genere e cristiana in specie, vorrei dire che i presupposti ai quali dobbiamo sempre ricondurre questo momento essenziale della nostra esistenza sono quelli messi in luce dalle letture che abbiamo ascoltato.
Come presupposto preliminare diciamo che la preghiera ha anche una sua grande validità di liberazione nel nostro esistere quotidiano.
Costretti come siamo – è la logica del vivere – a rapportare i nostri pensieri, le nostre immagini, i nostri desideri allo stretto perimetro dell’esistenza di tutti i giorni, ne deriva nel nostro modo di vivere una certa angustia, una certa assuefazione ai luoghi comuni, ai desideri già confezionati che ci vengono somministrati da quelle impalpabili vie che sono le vie di comunicazione, per cui desideriamo quel che si deve desiderare e ogni mese e ogni stagione ha i desideri prestabiliti e guai a non averli.
Viviamo una vita di desiderio frustrata, artificialmente tonificata.
Poter allargare l’anima – a prescindere in questo momento da ogni riferimento al destinatario della preghiera, che è Dio – poter ampliare l’orizzonte, dare libero sfogo alle attese, alle speranze significa prendere un volo alto, scuotersi di dosso la polvere delle meschinità quotidiane.
E’ un respiro fisiologico necessario, senza del quale la nostra coscienza prigioniera della banalità, degli egoismi collettivi, magari sacralizzati – anch’essi prevedono la Pasqua, il Natale, il compleanno, le prime comunioni… queste scadenze terribili di cui l’organigramma dell’esistenza si riempie del tassello necessario – non trova modo di espandersi negli orizzonti in finiti.
È un modo di rimettersi in piedi, di riprendere una misura, con noi stessi, della nostra relatività.
Pregare vuol dire denunciare implicitamente la nostra condizione di bisogno, la nostra fragilità creaturale.
L’uomo sicuro non prega, si fa pregare.
La preghiera è una espressione della nostra umiltà creaturale. Questo è già un fatto e nel contempo è un aprire lo spirito agli spazi infiniti dove ]a cronaca non fa rumore, dove i punti di riferimento delle nostre meschine passioni si dissolvono.
Tra le linee direttive e imperative che emergono dalla Scrittura c’è innanzi tutto il sentimento di un amore che avvolge l’universo.
Mi rifaccio spesso a questo punto di riferimento che è cristiano, ma è umano, perché la rivelazione del Padre che è nei cieli non è una rivelazione per i cristiani, è l’espressione, attraverso una analogia potentissima che appartiene agli archetipi della psiche, di questo senso ultimo delle cose che, come voi capite, non è il messaggio di tutti i giorni.
Se ci muoviamo dentro le indicazioni dell’esperienza quotidiana ci è difficile pensare ad un Padre, perché tutto si svolge secondo un ritmo casuale e secondo una causalità che ci mette di fronte a cose terribili.
Bene si espresse quel grande scrittore quando disse: “Non posso credere in Dio in un mondo in cui si uccidono i bambini”.
Altro poi che uccidere i bambini! Ne avvengono di tutti i colori!
Come si fa a muoversi con leggerezza da un mondo si fatto per salire ad un Padre?
Il riferimento a questo amore universale è un riferimento che implica il sorpassamento dei confini della nostra ragione, la quale non è una funzione omnicomprensiva perché anche le cose terribili che vediamo, se le riconduciamo lungo la catena causale, forse ci riguardano.
Insomma, non merita piangere sui bambini che muoiono di fame se sappiamo che siamo costruttori di una macchina per la fame!
Ci sono in noi troppi scandali farisaici.
Comunque c’è un momento in cui noi facciamo appello a questo amore universale, che possiamo chiamare con mille nomi, che noi chiamiamo Padre.
Questo è un sentimento profondo ed è un sentimento che illumina le zone oscure della nostra esperienza, dove le cesure della morte sono aperte, dove più si è allargato il nostro reticolo di amore più abbiamo miserie da ricordare, assenze da sopportare.
Il riferimento all’amore universale è la condizione prima della preghiera.
Noi non siamo dei postulanti.
Certo possiamo anche chiedere la cosa più misera – anche un sorriso, anche il ritorno di un amico – ma possiamo trascendere ogni richiesta e semplicemente navigare in questo amore che è senso di tutte le cose, che ci traspare, ma appena per sprazzi, in questa o in quella persona, in questo o quello avvenimento, in questo o quello spettacolo di natura.
La preghiera implica però anche il superamento delle circostanze e dei segni provvisori. Questa è la prima condizione.
Ernesto Balducci – da: “Omelie inedite – 1989
 

Fedeli al futuro!

LaurentSCHLUMBERGER copia[ fonte:  www. monasterodibose.it ]
Pubblichiamo qui – in versione quasi integrale – il messaggio pronunciato dal presidente del consiglio nazionale della chiesa protestante unita di Francia (nata, dopo un processo durato vari anni, dalla fusione della chiesa riformata di Francia con la chiesa luterana di Francia) durante il primo Sinodo nazionale di questa chiesa, tenuto a Lione dall’8 al 12 maggio 2013. Un testo dal sapore profondamente evangelico e dal tono genuinamente ecumenico, che può ispirare ogni chiesa nel suo quotidiano cammino di fedeltà all’evangelo e di ricerca della comunione ecclesiale. Centrato su una fondamentale fiducia nel futuro, “una fiducia scelta da Dio”, che diviene “una fiducia ricevuta, una fiducia che fa vivere, una fiducia che impegna”, questo testo incoraggia ogni chiesa cristiana a “rimettere ogni cosa al Dio vivente, affidarsi a lui, abbandonarsi alla fiducia che in lui ha la sua sorgente.
 
Fratelli e sorelle, membri del Sinodo nazionale,
signor ministro,
signori parlamentari,
signore e signori, rappresentanti eletti della società civile e dei culti,
fratelli e sorelle delle organizzazioni ecumeniche e delle chiese sorelle, provenienti da oltre i confini nazionali e confessionali,
fratelli e sorelle protestanti e protestanti evangelici,
fratelli e sorelle provenienti dalle parrocchie, dalle chiese locali, dalle regioni della chiesa protestante unita,
Oggi è sabato. Tra venerdì e domenica, che ci ricordano il venerdì santo e la domenica di Pasqua, giorni fondatori. Oggi è sabato. Tra lo stallo della croce, incomprensibile, e nuovi cammini ancora impensabili.
In qualche modo, la chiesa si trova in questa situazione. In questo sabato, che concentra e abbraccia tutta la storia umana. In questo sabato, in cui i discepoli sono introvabili e solo poche donne preparano un’imbalsamazione, un’imbalsamazione che alla fine non avrà luogo.
La chiesa è in questa situazione, in questo frattempo, in cui tutto è come sospeso. Tra le sue speranze deluse e la promessa già all’opera. Tra ripiego amaro e fiducia possibile.
E deve sempre lasciarsi di nuovo convertire dallo Spirito del Dio vivente. Perché ciò che ritiene essere una situazione di stallo è proprio l’apertura. Ciò che considera lo scacco finale è l’inizio della sua missione.
Sabato lo è ogni giorno, quando nulla sembra possibile agli uomini e tutto è possibile a Dio. Ed è per questo che celebrare la nascita della chiesa protestante unita di Francia questo sabato, non può avere che un solo significato: rimettere ogni cosa al Dio vivente, affidarci a lui, abbandonarci alla fiducia che in lui ha la sua sorgente.
La creazione della chiesa protestante unita è l’affermazione di questa fiducia fondamentale, vitale. Non è il risultato di chissà quale abile strategia, ben calcolata. Non sarebbe altro che quella specie di falsa fiducia di cui si sente tanto parlare, simile all’autosuggestione, che viene invocata nelle sale dei mercati finanziari o nelle scuole di management, che altro non è se non la sola fiducia in se stessi, nelle proprie forze e capacità, e che quindi in fondo altro non è che sfiducia nei confronti degli altri.
La fiducia di cui sto parlando è la fiducia che Dio ha scelto, una volta per tutte. E questa fiducia scelta da Dio è per noi una fiducia ricevuta, una fiducia che fa vivere, una fiducia che impegna.
                                                                                                  *
Si tratta di una fiducia ricevuta.
Se siamo ciò che siamo oggi, lo dobbiamo prima di tutto agli altri. Naturalmente, non si può dimenticare tutto il paziente lavoro che ci ha portato a questo sabato 11 maggio. Lo sforzo è stato multiplo; il compito, considerevole […].
Ma se siamo stati in grado di portare a buon fine questo lavoro, è perché noi siamo stati “lavorati”, più di quanto noi stessi abbiamo lavorato. È perché stiamo stati “agiti”, se così posso esprimermi, più di quanto noi stessi abbiamo agito.
La chiesa protestante unita è un frutto del movimento ecumenico. Nel 1910, la conferenza di Edimburgo invitò a mettere in primo piano la missione della chiesa e, al tempo stesso, a relativizzare le identità confessionali. Nel 1934, la Dichiarazione di Barmen ha unito luterani e riformati per affermare l’autorità suprema di Gesù Cristo solo, contro l’idolatria nazista; con la linfa della chiesa confessante, ha irrigato tutto il protestantesimo del dopoguerra soprattutto in Francia. Nel 1948, la fondazione del Consiglio ecumenico delle chiese ha posto la ricerca dell’unità visibile al cuore della vita delle chiese. Nel 1962, il concilio Vaticano II ha mostrato come la speranza ecumenica poteva trovare eco all’interno la chiesa più importante e trasformarla, mentre molti la credevano immobile e immutabile. Nel 1973, la Concordia di Leuenberg ha proposto una modello di unità basato non più sull’uniformità e sulla diffidenza nei confronti delle originalità, ma al contrario sulla diversità riconciliata.
Attraverso questa storia, è lo Spirito del Dio vivente che è all’opera. Noi che eravamo lontani gli uni dagli altri e talvolta anche antagonisti, siamo stati resi prossimi. Abbiamo fatto l’esperienza di essere riconciliati dal Cristo, che è la nostra pace. In lui, Dio per primo ha fatto questa scelta della riconciliazione. L’ha fatta una volta per tutte, e tesse di nuovo ogni giorno la scelta della fiducia, la scelta della fede. La fede di Gesù Cristo è la fede che ci è donata.
Pertanto attestiamo che è bene fare fiducia all’altro. Rifiutiamo le posture identitarie, che derivano dalla paura e dall’illusione, la paura dell’altro e l’illusione che si potrebbe esistere senza di lui o contro di lui.
Questo è vero tra i cristiani ed è per questo che confessiamo che la nostra chiesa e ciascuna chiesa è uno dei volti – solo uno dei volti – dell’unica chiesa di Cristo. E ci rallegriamo della pluriappartenenza ecclesiale di alcuni cristiani, che manifestano così che l’evangelo supera i confini confessionali e le frontiere culturali.
Rifiutiamo anche le posture identitarie in campo sociale. Naturalmente si possono capire le radici di queste paure e di queste illusioni, radici a volte ben reali, e tanto spesso coltivate e strumentalizzate. Ma non possiamo rassegnarci né a lasciare che si espandano, né semplicemente a dispiacerci dei loro effetti nefasti. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. La nostra società, rosa dalla sfiducia, ha bisogno di questa ospitalità fondamentale. È da ingenui affermarlo? Al contrario, è profondamente realistico. Nessuno di noi sarebbe qui se lui stesso non fosse stato accolto, al momento della sua nascita e più volte nella sua vita. Quindi se siamo chiamati a vivere un’ospitalità fiduciosa, specialmente verso gli umiliati, verso coloro che vengono designati così facilmente e alla leggera come dipendenti, incapaci, fragili, assistiti, perdenti di qualsiasi tipo, non è per dovere; è per lucidità e per gratitudine.
La fiducia è sempre, prima, ricevuta. Essendo ricevuta, può dar vita alla gratitudine e quindi alla fiducia condivisa. Celebrare la nascita della chiesa protestante unita significa attestare questa fiducia ricevuta. Ricevuta da Dio e manifestata in Gesù Cristo.
                                                                                                *
Questa fiducia ricevuta è poi una fiducia che fa vivere.
E vorrei soffermarmi per un momento sulle significative trasformazioni che il nostro protestantesimo sta vivendo proprio in questo momento, e di cui la cui creazione della chiesa unita è un segno.
Dalla loro prima apparizione e per cinque secoli, essere protestanti in Francia ha significato non essere cattolici. I protestanti hanno costituito una sorta di alternativa ultraminoritaria al culto dominante. Questo per loro disgrazia, dato che avveniva in tempi di persecuzione. Ma per loro orgoglio, quando venivano identificati dalla parte del progresso, della Repubblica o della laicità. E questo ha costituto una risorsa identitaria inesauribile e, di fatto, confortevole: il protestantesimo viveva in qualche modo appoggiato contro il cattolicesimo. Ha dunque sviluppato un modo di essere chiesa adattato a questo contesto. Si è autocompreso come un piccolo gregge, per riprendere un’immagine biblica. Un piccolo gregge capace di aiuto reciproco, che tesseva forti solidarietà interne, che amava i marcatori discreti e visibili solo da parte degli iniziati, che verificava regolarmente la propria fedeltà. Questo modo di essere chiesa, allora pertinente, gli ha permesso di attraversare le prove e i secoli.
Ma questo mondo è cambiato. È addirittura scomparso. Le istituzioni religiose sono ormai marginali, le convinzioni sono individualizzate, le affiliazioni sono fluttuanti. Dal 2008, le persone atee e agnostiche dichiarate costituiscono la maggioranza in Francia. Il cattolicesimo, naturalmente, ma anche l’insieme cumulativo dei culti rappresenta sempre più una minoranza. Il protestantesimo francese quindi non può più esistere appoggiandosi contro un altro culto. Non c’è da dispiacersene. È così. Ed è probabilmente la chance di trovare un nuovo modo di essere chiesa, un modo pertinente a questo mondo.
Ecco la nostra grande sfida per questa generazione: integrare questo completo rovesciamento di ciò che noi siamo stati per lungo tempo, per essere fedeli oggi e domani all’evangelo che abbiamo ricevuto, al nostro modo di comprenderlo e di condividerlo. Per il nostro protestantesimo, si tratta di passare dalla connivenza alla condivisione, dall’inter nos all’incontro, da una chiesa che si stringe nelle spalle a una chiesa che apre le sue braccia. Da una chiesa di membri a una chiesa di testimoni.
Questo cambiamento non è a venire, è già in corso, e vi siamo già coinvolti. Molteplici segni lo indicano […] Ciò che possiamo percepire in tutti questi mutamenti in atto nel piccolo protestantesimo francese luterano e riformato – mutamenti più radicali di quanto spesso non pensiamo – è una fiducia all’opera. Una fiducia ricevuta, dicevo, e una fiducia che fa vivere. In altre parole: una fiducia nel domani.
Sì, il domani vale la pena di oggi. Il domani vale la gioia di oggi. Il domani vale la speranza lucida e attiva di oggi. Le mille ragioni – sociali, economiche, finanziarie, ecologiche… – per considerare il futuro come una minaccia e, peggio ancora, come illeggibile, non possono abbattere questa certezza: colui che in Gesù Cristo si è immerso nel cuore della condizione umana, colui che ha lasciato la tomba vuota, colui che per primo ci ha fatto fiducia, ci dà appuntamento per domani. Lì ci precede e ci viene incontro.
Celebrare la nascita della chiesa protestante unita significa attestare una fiducia che fa vivere e che farà vivere domani. E quindi significa attestare una fiducia che impegna.
                                                                                                  *
Una fiducia che impegna. E con questo concludo.
Noi crediamo che Dio ama il mondo. Noi crediamo persino che Dio ne “va pazzo”! E lo ama in grande […] Ed è perché Dio ama il mondo e i suoi abitanti che vi si è fatto conoscere come un servo.
Al cuore dell’evangelo, come la Riforma l’ha ricevuto, sta questa scoperta: Dio viene non per essere servito, ma per servire. Per servirci. In Cristo, il Dio vivente si mette ai nostri piedi. L’altezza a cui Dio si trova è ormai a livello del suolo. Quando osiamo abbandonarci a questo servizio sconvolgente, sperimentiamo che tutta la nostra vita è nelle sue mani, che ciò che sembra umile diventa glorioso, quello che è debole diventa forte. Per amore, per niente, per grazia, ci libera da ogni falso valore, da qualsiasi potere, da qualsiasi fatalità. Soprattutto, ci libera dalla preoccupazione per noi stessi.
E il fatto di essere così liberati dalla preoccupazione per noi stessi ci impegna al servizio degli uomini. Per questo la chiesa protestante unita trova il proprio fine non in sé, ma in un rinnovamento della sua missione, del suo servizio. Per questo è stata creata. Per questa ragione siamo qui. La fiducia ricevuta da Dio, questa fiducia che fa vivere, è una fiducia che ci impegna.
Vogliamo dunque dimostrare che servire è bene. È bene servire, impegnandosi nella preghiera, che dilata la nostra vita alle dimensioni dell’amore di Dio per il mondo. È bene servire, impegnandosi nella diaconia, nel servizio sociale, che ci rende vulnerabili agli altri e a Dio. È bene servire, impegnandosi in una testimonianza esplicita, che sparge ai quattro venti i semi del regno di Dio. Queste sono le tre dimensioni del servizio per il quale Cristo ci libera e nel quale ci impegna. Ed è così che noi possiamo rendere contagiosa la fiducia che abbiamo ricevuto e che ci fa vivere.
Sì, noi l’attestiamo, c’è una felicità nel servire gli altri, nell’impegnarsi per loro. Eppure, tutto ci spinge a preoccuparci unicamente di noi stessi. Tutto, a partire dalla trasformazione del più piccolo evento intimo in spettacolo, o dall’ideologia del mercato quando diventa una religione onnipervasiva che fa delle mie voglie l’unico parametro valido. Ma noi crediamo – anzi, di più: noi sperimentiamo – che c’è una felicità nel servire più che nel servirsi. È il servizio che tesse con pazienza la tela della fiducia.
Dobbiamo ripeterlo prima di tutto a noi stessi: costruire la fiducia è l’opposto di un quietismo compiaciuto; è una pratica, è uno sforzo, è una lotta, spesso contro se stessi in primo luogo e poi contro la sfiducia che sempre si rinnova. Dobbiamo anche condividere questa convinzione e ricordarla a tutti coloro che hanno una responsabilità sociale, sia essa politica, nelle imprese, nei media, nel campo educativo, ecc. E noi possiamo, proprio per la fede di Gesù Cristo che ci è donata, non aver paura di impegnarci nel campo della responsabilità sociale.
                                                                                                  *
La fiducia ricevuta – e che noi diciamo di ricevere da Dio per primo: questo è il cuore dell’evangelo –, la fiducia che ci fa vivere, è una fiducia che ci impegna. Rendere contagiosa questa fiducia è la nostra vocazione. Questo è il significato della creazione della chiesa unita. Questo è il cammino che si apre davanti a lei.
Per tale motivo, questo sabato mattina, in questo frattempo attraverso il quale la chiesa si trova sempre a dover ripassare, vorrei tranquillamente ma chiaramente affermare che questo cammino che si è aperto è un cammino di benedizione.
Il cammino aperto davanti a noi è un cammino di benedizione se… Se ci impegniamo in esso, appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sul soffio di Dio. Se abbandoniamo le nostre identità quando ci ostacolano, per ricevere l’identità che Dio ci dona. Se abbiamo il coraggio di essere attestatari dell’evangelo.
Di più, il cammino aperto davanti a noi è un cammino di benedizione perché… Perché se io non ho alcun’idea di cosa accadrà domani, so che lì Cristo ci accoglie e ci dà appuntamento. Perché ci accompagna, ovunque noi siamo, ogni giorno.
E il cammino aperto davanti a noi è un cammino di benedizione per… Per servire gli uomini. Per rendervi contagiosa la fiducia ricevuta da Dio. Per benedire, poiché a questo siamo chiamati.
Fratelli e sorelle, noi possiamo far salire a Dio l’espressione della nostra gratitudine quando volgiamo lo sguardo al passato, il passato nella sua lunga durata e il passato prossimo, che ci ha condotti sin qui. Ed ora, radicati nella fiducia ricevuta, nella fiducia che ci fa vivere, nella fiducia che ci impegna, siamo chiamati a percorrere questo cammino di benedizione.
Siamo ormai chiamati ad essere fedeli al futuro.
Pastore Laurent SCHLUMBERGER
presidente del consiglio nazionale
della chiesa protestante unita di Francia

XVI Domenica del T.O. – Il troppo affanno per il servizio può separarci dalla Parola.

Betania mNel vangelo di Giovanni Marta appare in due occasioni, e sempre assieme a sua sorella Maria: in Gv 11,1-44 (in connessione con la malattia, morte e risurrezione di Lazzaro, il loro fratello) e in Gv 12,1-8 (nell’episodio noto come l’unzione di Betania).
… Nel vangelo di Luca[ di questa XVI dom. del T.O ] troviamo Marta e Maria in una pericope molto famosa e spesso mal interpretata o interpretata in maniera simplista e sbagliata. …
Secondo una lunga tradizione ecclesiale, questo racconto sarebbe rivolto soltanto alle donne: Marta e Maria rappresentano due forme di vita femminile, mentre gli uomini rimangono fuori dello scenario. Infatti, essi sono rappresentati da Gesù, il loro sposo (cfr. Ef 5).
Da questa prospettiva, emergono due tipi di donne:

  • la donna attiva al servizio delle cose degli uomini (specialmente dei maschi)
  • e le donne contemplative al servizio di Dio.

 Questa divisione può essere utilizzata ad un certo livello, però risulta insufficiente non tanto per quello che dice ma per quello che tace.
 A mio avviso, nel racconto di Luca né Marta è una serva né Maria è una contemplativa.
Esse rappresentano tipologicamente due atteggiamenti caratteristici non soltanto delle donne, ma delle donne in quanto segno visibile della comunità.   Marta e Maria sono lo specchio della comunità composta da uomini e donne.
Marta è colei che accoglie Gesù in casa sua, in un piccolo villaggio, la qual cosa dice molto in favore di questa donna.
Grazie all’accoglienza e all’ospitalità di Marta, il villaggio diventa un   villaggio accogliente e ospitale che contrasta fortemente con il villaggio dei Samaritani, quelli che non ricevettero Gesù (cfr. Lc 9,51-56) e con le case-città che rifiutano i missionari di Gesù (Lc 10,10-12).
Marta, come Zaccheo, accoglie Gesù (supponiamo anche essa piena di gioia, perché erano amici), però mentre Zaccheo parla direttamente con Gesù su certi problemi, Marta lo fa per mezzo di sua sorella.
E qui cominciano i problemi.
Ci troviamo di fronte a due sorelle messe a confronto a causa di un uomo, il che è frequente nella Bibbia e anche nella nostra storia.
 Pensiamo a Sara e Agar, una donna libera e una schiava, vincolate allo stesso marito, Abramo, il cui favore vogliono ottenere.
Ricordiamo anche Lia e Rachele, due donne libere, due sorelle che litigano per l’amore dello stesso uomo: Giacobbe.
O anche Pennina e Anna, due donne libere, una feconda e l’altra sterile, ambedue moglie di Elkana.
Alla luce di queste storie possiamo capire meglio la tensione tra Marta e Maria, le due sorelle protagoniste del nostro racconto.
Maria appare in situazione di discepolo, cioè è seduta ai piedi del Signore (Kyrios) e ascolta la sua parola, così come i giudei che studiavano la Torah si sedevano attorno al loro rabbino per ascoltare e imparare i suoi insegnamenti.
Maria ascolta il Maestro, però non parla, non pone delle domande, non fa delle obiezioni, non discute, soltanto ascolta. Essa riceve la parola e la conserva nel cuore, come faceva Maria la madre di Gesù in Lc 2,19.51. Ed è proprio questo silenzio di Maria, in quanto discepola, che ha fatto nascere un’altra interpretazione del nostro testo molto diffusa, però anch’essa parziale e un po’ tendenziosa. Marta e Maria rappresentano due attività femminili opposte e complementari allo stesso tempo, tutte e due segnate dal silenzio: l’attività svoltasi senza parole (Marta) e la parola ascoltata in silenzio (Maria). 
Marta ha accolto Gesù, però quella che in realtà gli ha dedicato la sua attenzione e il suo tempo è stata Maria.
 Marta era distratta con tante cose da fare. Maria invece era concentrata sulle parole di Gesù.
Alla distrazione di Marta si oppone l’attenzione di Maria, e al molto servizio di Marta si oppone la concentrazione di Maria. Quindi l’informazione del narratore presenta una connotazione negativa: in certe occasioni il troppo servizio può anche essere dispersivo.
La reazione di Marta è immediata e si lamenta direttamente al Signore, perché si trova a dover fare tutto il lavoro da sola. Essa è distratta non per volere suo, ma perché deve portare tutto il peso del lavoro. Quindi, il problema di fondo è la molta, o meglio ancora, la troppa ‘diakonia’ non condivisa.
Di fronte a Gesù le due sorelle entrano in conflitto, perché ambedue vogliono servirlo, benché in maniere diverse. E in certo modo, Marta ha ragione.
Se il lavoro è condiviso, diventa più leggero e si finisce prima.
Se Marta è distratta è per colpa di Maria che l’ha lasciata sola. “Dille dunque che mi aiuti”, dice Marta a Gesù, però questi non accede alla sua richiesta.
Invece di rivolgersi a Maria per rimproverarla a causa della sua negligenza, Gesù risponde a Marta per aiutarla a riflettere, per darle un consiglio.
 L’atteggiamento di Marta è rischioso (cfr. 1Cor 13,1-3), perché si possono fare molte cose per Gesù, dimenticando l’essenziale, cioè l’ascolto della sua Parola.
La risposta del Maestro (“Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno”) ci ricorda un’altra delle sue sorprendenti risposte, questa rivolta alla donna che ha fatto un bel elogio di sua madre: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28).
Una cosa sola è necessaria: cercare il Regno di Dio (Lc 12,31). E per trovarlo bisogna lasciare tutto, così come ha fatto Maria.
Essa ha lasciato tutto e si è seduta ai piedi di Gesù per ascoltarlo.
 Maria è stata una donna libera, perché ha voluto scegliere e ha scelto la parte migliore.
Nessuno ha scelto per lei.  La iniziativa è stata tutta sua.
Gesù non dice a Marta di continuare il lavoro, e nemmeno dice a Maria di continuare seduta ai suoi piedi, ma pone l’accento sul valore che ha l’ascolto personale della parola per ambedue le sorelle.
Gesù non condanna Marta, ma le ricorda il rischio di vivere in una continua dispersione. Il troppo affanno per il servizio può separarci dalla Parola di Gesù che è la radice la fonte di ogni servizio.
Gesù vuole una risposta di Marta e una risposta di Maria.
Se da una parte Marta è invitata a superare la sua angoscia per il lavoro e a sedersi accanto a Gesù per ascoltarlo, Maria, dopo aver ascoltato la sua parola, dovrà alzarsi per mettere in pratica la parola al servizio dei fratelli.
Perché mai dobbiamo sempre separare Marta da Maria, l’azione dalla contemplazione, la diaconia dalla parola?
 Tutti noi, uomini e donne, siamo Marta e Maria, attivi e contemplativi, servitori e ascoltatori della Parola. Ognuno/a di noi in quanto singola persona è uno specchio della comunità.
 (Nuria Calduch-Benages – “Il Profumo del Vangelo: Gesù incontra le donne” )

I concili nei secoli
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I° CONCILIO DI NICEA



I° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



I° CONCILIO DI EFESO



I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



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V CONCILIO LATERANENSE


CONCILIO DI TRENTO



CONCILIO VATICANO I°

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