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tirisan

Papa Francesco a Lampedusa: "I valori nascosti di un gesto".

ITALY-POPE-IMMIGRATION-REFUGEE-LAMPEDUSAwww.chiesadicefalu.it( Pubblichiamo  l’articolo di Enzo Bianchi, priore di Bose,  sulla visita di Papa Francesco a Lampedusa, apparso oggi sul quotidiano ” La Stampa”. Dopo l’articolo il testo integrale dell’omelia che si può anche rivedere cliccando sull’icona a destra del post )
Sono passati ormai sette anni – e innumerevoli sbarchi, naufraghi, profughi e morti – da quando, pubblicando un libro sugli stranieri e sull’ospitalità, volli dedicarlo “agli uomini, alle donne e ai bambini che, andando verso il pane e sognando la nostra accoglienza, sono morti da stranieri nelle acque del Mediterraneo, mare che avrei voluto che potessero amare e sentire ‘nostro’ come io lo sento e lo amo”.
Ed ecco che un uomo, un cristiano, un papa venuto dalla fine del mondo sceglie l’estrema periferia sud dell’Italia per la sua prima uscita da Roma e va in pellegrinaggio a un santuario dell’umanità sofferente, quel mare che ha inghiottito migliaia di persone. Un gesto volto a esprimere la sollecitudine verso gli ultimi, i poveri, quelle categorie sociali che il dettato biblico affida alla custodia dei credenti perché prive di ogni tutela e diritto: l’orfano, la vedova, lo straniero. Un gesto quindi che esprime il modo con cui il vescovo di Roma vuole esercitare il suo ministero di pastore – la cui voce e i cui gesti sono indirizzati a tutti – e vuole praticare la prossimità, la vicinanza come primo passo per amare gli altri.
Un gesto altamente simbolico, ma soprattutto profetico quello posto risolutamente e semplicemente da papa Francesco, capace di interrogare le coscienze – e anche di infastidirne molte, che però si dicono “pronte a difendere la vita”, come si è visto e letto nei giorni che lo hanno preceduto – e di ridestare non tanto l’attenzione quanto le orecchie e il cuore di ciascuno, la capacità che ogni essere umano ha di riconoscere nell’altro un proprio simile, un fratello e una sorella che condivide la comune umanità al di là di ogni differenza di etnia, lingua, appartenenza. Un gesto che vuole ricordare a tutti, a cominciare da chi ha responsabilità politiche ed economiche, che nessun essere umano è clandestino su questa terra, che ciascuno ha diritto a veder riconosciuta e rispettata la propria dignità, che migranti, profughi, esuli, vittime di guerre e di carestie non si metterebbero in viaggio se trovassero pane e giustizia là dove sono le loro radici e il loro cuore. Un gesto che vuole provocare la coscienza di tutti gli uomini e vuole “spingere a riflettere e a cambiare comportamento”.
Papa Francesco ha lanciato questo appello come pastore cristiano che cerca di ritornare alla semplice essenzialità del vangelo che, “nascosta ai sapienti e ai dotti, è rivelata ai piccoli” (Mt 11,25). Così la visita a Lampedusa, il ricordo dei morti e dei sopravvissuti, la gratitudine per chi si è speso nell’accoglienza, l’intero evento è stato posto sotto il segno della dimensione penitenziale e dell’invocazione della remissione dei peccati. Colore dei paramenti violaceo, letture bibliche, sobrietà di parole, gesti e riti: tutto si è articolato nello spazio del credente che si pone di fronte a Dio chiedendo perdono per i peccati commessi, peccati che, come ben sappiamo, sono spesso segnati anche da ciò che noi riduciamo a semplice “omissione” ma che può avere sul nostro prossimo l’effetto di una condanna a morte. Come Erode ha seminato morte per il proprio benessere, anche noi di fatto per il nostro benessere procuriamo morte e miseria a quelli con i quali non condividiamo l’unica terra e le sue risorse. Anche l’altare-barca su cui ha celebrato papa Francesco era significativo: mi sono venute in mente le parole di Giovanni Cristostomo: “Ogni volta che vedrete un povero, ricordatevi che sotto i vostri occhi avete un altare non da disprezzare ma da onorare”.
La centralità riservata alla dimensione penitenziale in una giornata come quella di Lampedusa, ci svela meglio di tanti discorsi come nell’ottica della fede cristiana la liturgia sia una componente della storia e non un’evasione dalla realtà. La preghiera agisce, ha ricadute nel quotidiano, non tanto per un intervento divino estraneo ai nostri comportamenti, non come risultato di un Dio onnipotente chiamato in causa, ma soprattutto attraverso coloro che pregano veramente: dialogando con il loro Signore, ne ascoltano la parola e la volontà, ne invocano lo spirito di discernimento e di forza, si impegnano a mettere in pratica ciò che il vangelo esige da loro.
Allora riconoscere di fronte a Dio la nostra inadeguatezza o addirittura riluttanza nel prenderci cura dell’altro – “sono forse il custode di mio fratello?” è la tragica domanda di Caino – significa già predisporci a una conversione, a un mutamento radicale nel nostro modo di pensare e di agire, a un’apertura verso un mondo più solidale e fraterno. Noi, soprattutto noi credenti, dobbiamo chiederci: “Uomo, dove sei?” e smettere di chiedere: “Dio dove sei?”. Dovremmo riscoprire, come ci ricorda insistentemente papa Francesco, che la difesa della vita comincia dalla difesa degli ultimi della terra, di quelli che soffrono fame e violenza.
I cinici diranno che profughi, sbarchi, naufraghi e morti continueranno ugualmente anche nei prossimi giorni, mesi e anni; alcuni non cesseranno di invocare misure sempre più drastiche e inumane per fronteggiare una pretesa emergenza, molti proseguiranno nel loro disinteresse colpevole o nella cieca brutalità di chi conosce il prezzo di ogni cosa e ignora il valore di ogni singola persona, altri vorranno ridimensionare questo evento dicendo che “il papa fa il suo mestiere” mentre invece, pur ispirato dal vangelo, grida quale uomo a tutti gli uomini: “Basta all’indifferenza, anzi a questa globalizzazione dell’indifferenza che continua ad avanzare”.
In quell’umile gesto della corona di fiori gettata pregando nel mare di Lampedusa, porta d’Europa, periferia delle periferie, in quell’invito a prendersi cura del fratello come di se stessi, in quella memoria resa a uomini donne che cercavano vita per sé e i loro cari e hanno trovato morte anonima occorre cogliere un’urgenza per tutti noi: patire con chi patisce, piangere con chi piange perché questa è fraternità umana, è custodia dell’altro, è compassione! E c’è anche la rinnovata possibilità di avere fiducia nell’altro, c’è il sapersi parte di un’unica comunità, c’è la consapevolezza che “chi ha salvato una sola vita, ha salvato l’umanità intera”.
Omelia di Papa Francesco
 “Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Così il titolo nei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà. Grazie!
Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto e il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco, signora Giusy Nicolini. Grazie tante per quello che lei ha fatto e fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno oggi, alla sera, iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie.
Questa mattina alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti. «Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello. Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza; tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà – e le loro voci salgono fino a Dio. E un’altra volta a voi, abitanti di Lampedusa, ringrazio per la solidarietà! Ho sentito recentemente uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui, sono passati per le mani dei trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri; queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto. E alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno. Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro.
Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere. Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo. «Chi ha pianto?», chi ha pianto oggi nel mondo?.
Signore in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo, Padre, perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore; Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».”
 

XIV Domenica del T.O. – Lo stile di colui che annuncia il Vangelo è costitutivo dell’annuncio stesso!

Pro XIV Nel vangelo secondo Luca non ci viene descritto solo l’invio dei dodici Bicnhiapostoli a  Israele. 
Durante la salita verso Gerusalemme Gesù designa altri settandue disepoli e li invia a due a due avanti a sè in ogni città dove sta per recarsi». ( E. Bianchi )
Perché Settantadue? Perché, mentre Dodici è il numero che riguarda le tribù d’Israele, quindi un messaggio è per Israele, Settantadue, secondo il computo che si trova nel libro della Genesi al cap. X, sono le nazioni pagane.  Quindi è una missione universale
Alberto Maggi1Li inviò a due a due”, perché siano una comunità, ma soprattutto perché il numero due era quello indispensabile per essere testimoni …
«Pregate il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe»”, non riguarda soltanto le categorie – come a volte si pensa – dei preti, frati e suore, ma è un invito rivolto a tutti quanti, affinché ognuno prenda coscienza dell’urgenza di questa missione. ( A. Maggi )
padreAldoBergamaschiAndate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi…” (sottinteso) voi che prima della mia predicazione eravate dei lupi come tutti, vi rendete conto di cosa significa dire lupi agli ebrei i quali erano il culmine della religiosità, sarebbe come se io oggi dicessi siamo tutti lupi noi cattolici, voi fratelli protestanti, voi ortodossi, e non parliamo degli altri.
Gesù dice: “Io vi mando come agnelli…”, perché dopo tre anni, due anni, un anno di predicazione ha trasformato questi lupi in agnelli e non si tratta di fare la guerra contro i cattivi, il problema è quello di convertirli, quindi preoccupazione pedagogica e non impresa bellica o coloniale, il mandato qualifica direttamente anche il concetto di Chiesa. Ma guai a chi dovesse interpretare questa parola agnelli come un dato di fatto originario, perché agnelli in senso originario non ne esistono, come non esistono lupi. Allora: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”, vi mando come agnelli non contro i lupi, ma in mezzo ai lupi, ecco la funzione del cristiano nel mondo (A. Bergamaschi, Andate e mostrate, 167-168).
charles_de_foucauldComportiamoci sempre come agnelli, secondo l’esempio, a imitazione, in rassomiglianza di Gesù; come lui, lasciamoci non soltanto tosare, ma anche sgozzare, senza lamentarci. Non solamente senza resistenza, ma anche senza lamento: non resistiamo al male, a chi ci percuote porgiamo l’altra guancia, a chi ci toglie il mantello non impediamo che ci prenda anche la tunica…
Non stiamo a difendere né i nostri  beni né la nostra vita, seguendo l’esempio di Nostro Signore Gesù che si lasciò prendere sia i primi che la seconda senza difenderli né con parole né con atti, muto dinanzi ai suoi giudici e non implorando affatto l’aiuto del Padre contro i suoi aggressori, ma null’altro chiedendogli che il loro perdono e la loro salvezza. (..)
E dunque, quale pretesto abbiamo ancora per impedire che ci prendano tutto e che ci mettano a morte senza far resistenza e senza lamento, come Gesù, per non essere sempre e in tutto agnelli innocui, indifesi e muti come Gesù? (C. de Foucauld, Opere Spirituali p. 198-9).
 
Bicnhi    L’aspetto dell’inviato deve essere segno che quanto egli annuncia lo vive in prima persona: tutto deve mostrare la povertà e il senso di urgenza che pervadono la missione, perché lo stile di colui che annuncia il Vangelo è costitutivo dell’annuncio stesso!
Povertà e precarietà non sono di ostacolo all’efficacia della missione, ma sono le condizioni da vivere in profondità affinché la missione sia reale: non basta avere pochi mezzi, occorre essere poveri; non basta annunciare la pace, occorre essere operatori di pace.
E se Cristo è venuto a portare la pace a tutti gli uomini (cf. Ef 2,17), anche a chi non lo ha accolto, altrettanto dovranno fare i suoi discepoli, senza invocare una vendetta dal cielo su chi li respinge (cf. Lc 9,54)…          
E’ a questi inviati, poveri e pacifici, che Gesù dice : «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me».
Ecco la grande responsabilità dei cristiani: come Gesù con la sua vita ha narrato il Padre (cf. Gv 1,18), ora tocca a noi narrare lui, essere i suoi testimoni nel mondo (cf. Lc 24,48).  ( E. Bianchi )
 
Mazzolari pCristo non garantisce niente a chi lavora per lui, e le condizioni da lui poste restano immutate dopo venti secoli: «Vendi quanto possiedi e dallo ai poveri… Prendi la tua croce e seguimi». 
Senza croce non si può tenergli dietro.  Il variare di essa è cosa di poco conto, quando uno ha accettato la croce.
E anche l’equipaggiamento non è mutato: «Senza borsa, senza denari, senza bastone, senza calzari…».  …. Neanche il campo: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi».
Come vedi, caro don Aurelio, non è fatta menzione né di chiesa, né di canonica, né di oratorio, né di beneficio, né di benevolenza dei grandi…
I tempi sono difficili, ma non fuori dei piani evangelici. Seguendoli, vi puoi fare un’entrata trionfale. Cruci confixu, noli timere (non temere quando sei crocifisso). (DON PRIMO MAZZOLARI, Della Fede, della Tolleranza, della Speranza, 1945, 204s)
 
U NeriIn qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa.
L’offerta della pace non è mai sciupata perché, se anche non è recepita, ritorna a chi l’ha data e ha come frutto l’aumento della pace di chi la offre.    Uno dice: “Dare la pace a quello è come gettare il seme sui sassi perché non viene su niente”. No, ci corregge il vangelo, la pace ritorna a te di rimbalzo.
Tutto l’insegnamento di Gesù richiede una vita spesa nell’attesa della giustizia di Dio e del suo giudizio escatologico, nella fede che è Lui che fa. Il non farsi giustizia e cedere al maligno non significa rassegnarsi all’ingiustizia e all’iniquità come ineluttabili, ma significa, al contrario, consegnarsi al giudizio di Dio. La parabola della zizzania lo dice chiaramente.
(…) L’uomo deve aspettare perché ci pensa Dio a ristabilire l’ordine. La nostra presunzione di mettere ordine nelle cose, base delle false teorizzazioni della resistenza violenta e della guerra in nome dell’opposizione all’ingiustizia va rovesciata. Noi dobbiamo cedere al nemico, non per lasciare che l’ingiustizia trionfi ma per consentire a colui che solo è capace di far trionfare il bene, di agire a suo modo, nelle sue dimensioni e a suo tempo (U. Neri, Guerra, stermini e pace nella Bibbia, 149-150).
 
«Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» Alberto Maggi1
Nella concezione dell’epoca Satana stava nei cieli, era un funzionario della corte divina, era un ministro di Dio. Basta leggere il libro di Giobbe, dove Dio riceve i suoi figlioli e fra questi c’è anche il Satana. Era l’ispettore generale di Dio, quello che curava i suoi interessi e il suo compito era sorvegliare gli uomini, e poi accusarli presso Dio per poi infliggere loro la pena per i loro peccati.
Ebbene, con l’annunzio dei Settantadue, la Buona Notizia ha avuto successo.  E qual è la Buona Notizia?
La Buona Notizia è che Dio non è buono, ma è esclusivamente buono; il Dio di Gesù non è il Dio della religione che premia i buoni e castiga i malvagi, ma a tutti comunica amore.
Allora il ruolo del Satana è finito; è inutile che accusi presso Dio perché egli a tutti quanti, indipendentemente dal loro comportamento, comunica il suo amore.  Già Gesù in questo vangelo aveva detto: “Perché il Padre è buono verso gli ingrati e i malvagi”.
Allora Satana viene cacciato dal cielo, il suo ruolo è terminato.   E nell’Apocalisse è importante la definizione che viene data di questo episodio, “E’ stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte”.
Poi l’assicurazione finale, “Nulla potrà danneggiarvi”, quindi le forze ostili non potranno farvi male perché la luce è più forte delle tenebre e la vita è più forte della morte. E per ultima cosa Gesù dice “Rallegratevi, non tanto per i vostri successi”, «Rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli»”, cioè l’esperienza di sentirsi amati da Dio ( A. Maggi )
 
 
 
 

Lumen Fidei: l'enciclica di Papa Benedetto e Papa Francesco

lumen fidei proLumen fidei – La luce della fede ( LF) è la prima Enciclica firmata da Papa Francesco.
Suddivisa in quattro capitoli, più un’introduzione e una conclusione, la Lettera – spiega lo stesso Pontefice – si aggiunge alle Encicliche di Benedetto XVI sulla carità e sulla speranza e assume il “prezioso lavoro” compiuto dal Papa emerito, che aveva già “quasi completato” l’Enciclica sulla fede. A questa “prima stesura” ora il Santo Padre Francesco aggiunge “ulteriori contributi”.
L’introduzione (n. 1-7) della Lumen Fidei
 illustra le motivazioni poste alla base del documento: innanzitutto, recuperare il carattere di luce proprio della fede, capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo, di aiutarlo a distinguere il bene dal male, in particolare in un’epoca, come quella moderna, in cui il credere si oppone al cercare e la fede è vista come un’illusione, un salto nel vuoto che impedisce la libertà dell’uomo. In secondo luogo, la LF – proprio nell’Anno della fede, a 50 anni dal Concilio Vaticano II, un “Concilio sulla fede” – vuole rinvigorire la percezione dell’ampiezza degli orizzonti che la fede apre per confessarla in unità e integrità. La fede, infatti, non è un presupposto scontato, ma un dono di Dio che va nutrito e rafforzato. “Chi crede, vede”, scrive il Papa, perché la luce della fede viene da Dio ed è capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo: procede dal passato, dalla memoria della vita di Gesù, ma viene anche dal futuro perché ci schiude grandi orizzonti.
 
Il primo capitolo (n. 8-22): Abbiamo creduto all’amore (1 Gv 4, 16).
Facendo riferimento alla figura biblica di Abramo, in questo capitolo la fede viene spiegata come “ascolto” della Parola di Dio, “chiamata” ad uscire dal proprio io isolato per aprirsi ad una vita nuova e “promessa” del futuro, che rende possibile la continuità del nostro cammino nel tempo, legandosi così strettamente alla speranza. La fede è connotata anche dalla “paternità”, perché il Dio che ci chiama non è un Dio estraneo, ma è Dio Padre, la sorgente di bontà che è all’origine di tutto e che sostiene tutto. Nella storia di Israele, all’opposto della fede c’è l’idolatria, che disperde l’uomo nella molteplicità dei suoi desideri e lo “disintegra nei mille istanti della sua storia”, negandogli di attendere il tempo della promessa. Al contrario, la fede è affidamento all’amore misericordioso di Dio, che sempre accoglie e perdona, che raddrizza “le storture della nostra storia”; è disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio, “è un dono gratuito di Dio che chiede l’umiltà e il coraggio di fidarsi e affidarsi a Lui per vedere il luminoso cammino dell’incontro fra Dio e gli uomini, la storia della salvezza” (n.14). E qui sta il “paradosso” della fede: il continuo volgersi al Signore rende stabile l’uomo, allontanandolo dagli idoli.
La LF si sofferma, poi, sulla figura di Gesù, mediatore che ci apre ad una verità più grande di noi, manifestazione di quell’amore di Dio che è il fondamento della fede: “nella contemplazione della morte di Gesù, infatti, la fede si rafforza”, perché Egli vi rivela il suo amore incrollabile per l’uomo. In quanto risorto, inoltre, Cristo è “testimone affidabile”, “degno di fede”, attraverso il quale Dio opera veramente nella storia e ne determina il destino finale. Ma c’è “un aspetto decisivo” della fede in Gesù: “la partecipazione al suo modo di vedere”. La fede, infatti, non solo guarda a Gesù, ma guarda anche dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi. Usando un’analogia, il Papa spiega che come nella vita quotidiana ci affidiamo a “persone che conoscono le cose meglio di noi” – l’architetto, il farmacista, l’avvocato – così per la fede necessitiamo di qualcuno che sia affidabile ed esperto “nelle cose di Dio” e Gesù è “colui che ci spiega Dio”. Per questo, crediamo a Gesù quando accettiamo la sua Parola, e crediamo in Gesù quando Lo accogliamo nella nostra vita e ci affidiamo a Lui. La sua incarnazione, infatti, fa sì che la fede non ci separi dalla realtà, ma ci aiuti a coglierne il significato più profondo. Grazie alla fede, l’uomo si salva, perché si apre a un Amore che lo precede e lo trasforma dall’interno. E questa è l’azione propria dello Spirito Santo: “Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo Spirito” (n. 21). Fuori dalla presenza dello Spirito, è impossibile confessare il Signore. Perciò “l’esistenza credente diventa esistenza ecclesiale”, perché la fede si confessa all’interno del corpo della Chiesa, come “comunione concreta dei credenti”. I cristiani sono “uno” senza perdere la loro individualità e nel servizio agli altri ognuno guadagna il proprio essere. Perciò “la fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva”, ma nasce dall’ascolto ed è destinata a pronunciarsi e a diventare annuncio.
 
Il secondo capitolo (n. 23-36): Se non crederete, non comprenderete (Is 7,9).
Il Papa dimostra lo stretto legame tra fede e verità, la verità affidabile di Dio, la sua presenza fedele nella storia. “La fede senza verità non salva – scrive il Papa – Resta una bella fiaba, la proiezione dei nostri desideri di felicità”. Ed oggi, data “la crisi di verità in cui viviamo”, è più che mai necessario richiamare questo legame, perché la cultura contemporanea tende ad accettare solo la verità della tecnologia, ciò che l’uomo riesce a costruire e misurare con la scienza e che è “vero perché funziona”, oppure le verità del singolo valide solo per l’individuo e non a servizio del bene comune. Oggi si guarda con sospetto alla “verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale”, perché la si associa erroneamente alle verità pretese dai totalitarismi del XX secolo. Ciò comporta però il “grande oblio del mondo contemporaneo” che – a vantaggio del relativismo e temendo il fanatismo – dimentica la domanda sulla verità, sull’origine di tutto, la domanda su Dio. La Lumen Fidei sottolinea, poi, il legame tra fede e amore, inteso non come “un sentimento che va e viene”, ma come il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà. Se, quindi, la fede è legata alla verità e all’amore, allora “amore e verità non si possono separare”, perché solo l’amore vero supera la prova del tempo e diventa fonte di conoscenza. E poiché la conoscenza della fede nasce dall’amore fedele di Dio, “verità e fedeltà vanno insieme”. La verità che ci dischiude la fede è una verità incentrata sull’incontro con Cristo incarnato, il quale, venendo tra noi, ci ha toccato e donato la sua grazia, trasformando il nostro cuore.
A questo punto, il Papa apre un’ampia riflessione sul “dialogo tra fede e ragione”, sulla verità nel mondo di oggi, in cui essa viene spesso ridotta ad “autenticità soggettiva”, perché la verità comune fa paura, viene identificata con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Invece, se la verità è quella dell’amore di Dio, allora non si impone con la violenza, non schiaccia il singolo. Per questo, la fede non è intransigente, il credente non è arrogante. Al contrario, la verità rende umili e porta alla convivenza ed al rispetto dell’altro. Ne deriva che la fede porta al dialogo in tutti i campi: in quello della scienza, perché risveglia il senso critico e allarga gli orizzonti della ragione, invitando a guardare con meraviglia il Creato; nel confronto interreligioso, in cui il cristianesimo offre il proprio contributo; nel dialogo con i non credenti che non cessano di cercare, i quali “cercano di agire come se Dio esistesse”, perché “Dio è luminoso e può essere trovato anche da coloro che lo cercano con cuore sincero”. “Chi si mette in cammino per praticare il bene – sottolinea il Papa – si avvicina già a Dio”. Infine, la Lumen Fidei parla della teologia ed afferma che essa è impossibile senza la fede, poiché Dio non ne è un semplice “oggetto”, ma è Soggetto che si fa conoscere. La teologia è partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso; ne consegue che essa deve porsi al servizio della fede dei cristiani e che il Magistero ecclesiale non è un limite alla libertà teologica, bensì un suo elemento costitutivo perché esso assicura il contatto con la fonte originaria, con la Parola di Cristo.
 
Il terzo capitolo (n. 37- 49): Vi trasmetto quello che ho ricevuto (1 Cor 15,3).
Tutto il capitolo è incentrato sull’importanza dell’evangelizzazione: chi si è aperto all’amore di Dio, non può tenere questo dono per sé, scrive il Papa. La luce di Gesù brilla sul volto dei cristiani e così si diffonde, si trasmette nella forma del contatto, come una fiamma che si accende dall’altra, e passa di generazione in generazione, attraverso la catena ininterrotta dei testimoni della fede. Ciò comporta il legame tra fede e memoria perché l’amore di Dio mantiene uniti tutti i tempi e ci rende contemporanei a Gesù. Inoltre, diventa “impossibile credere da soli”, perché la fede non è “un’opzione individuale”, ma apre l’io al “noi” ed avviene sempre “all’interno della comunione della Chiesa”. Per questo, come nella Trinità, “chi crede non è mai solo”: perché scopre che gli spazi del suo ‘io’ si allargano e generano nuove relazioni che arricchiscono la vita. C’è, però, “un mezzo speciale” con cui la fede può trasmettersi: sono i Sacramenti, in cui si comunica “una memoria incarnata”. Il Papa cita innanzitutto il Battesimo – sia dei bambini sia degli adulti, nella forma del catecumenato – che ci ricorda che la fede non è opera dell’individuo isolato, un atto che si può compiere da soli, bensì deve essere ricevuta, in comunione ecclesiale. “Nessuno battezza se stesso”, spiega la LF. Inoltre, poiché il bambino battezzando non può confessare la fede da solo, ma deve essere sostenuto dai genitori e dai padrini, ne deriva “l’importanza della sinergia tra la Chiesa e la famiglia nella trasmissione della fede”. In secondo luogo, l’Enciclica cita l’Eucaristia, “nutrimento prezioso della fede”, “atto di memoria, attualizzazione del mistero” e che “conduce dal mondo visibile verso l’invisibile”, insegnandoci a vedere la profondità del reale. Il Papa ricorda poi la confessione della fede, il Credo, in cui il credente non solo confessa la fede, ma si vede coinvolto nella verità che confessa; la preghiera, il Padre Nostro, con cui il cristiano incomincia a vedere con gli occhi di Cristo; il Decalogo, inteso non come “un insieme di precetti negativi”, ma come “insieme di indicazioni concrete” per entrare in dialogo con Dio, “lasciandosi abbracciare dalla sua misericordia”, “cammino della gratitudine” verso la pienezza della comunione con Dio. Infine, il Papa sottolinea che la fede è una perché uno è “il Dio conosciuto e confessato”, perché si rivolge all’unico Signore, ci dona “l’unità di visione”, ed “è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito”. Dato, dunque, che la fede è una sola, allora deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità: “l’unità della fede è l’unità della Chiesa”; togliere qualcosa alla fede è togliere qualcosa alla verità della comunione. Inoltre, poiché l’unità della fede è quella di un organismo vivente, essa può assimilare in sé tutto ciò che trova, dimostrando di essere universale, cattolica, capace di illuminare e portare alla sua migliore espressione tutto il cosmo e tutta la storia. Tale unità è garantita dalla successione apostolica.
 
Il quarto capitolo (n. 50-60): Dio prepara per loro una città (Eb 11,16)
Questo capitolo spiega il legame tra la fede e il bene comune, che porta alla formazione di un luogo in cui l’uomo può abitare insieme agli altri. La fede, che nasce dall’amore di Dio, rende saldi i vincoli fra gli uomini e si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace. Ecco perché essa non allontana dal mondo e non è estranea all’impegno concreto dell’uomo contemporaneo. Anzi: senza l’amore affidabile di Dio, l’unità tra gli uomini sarebbe fondata solo sull’utilità, sull’interesse o sulla paura. La fede, invece, coglie il fondamento ultimo dei rapporti umani, il loro destino definitivo in Dio, e li pone a servizio del bene comune. La fede “è un bene per tutti, un bene comune”; non serve a costruire unicamente l’aldilà, ma aiuta a edificare le nostre società, così che camminino verso un futuro di speranza.
L’Enciclica si sofferma, poi, sugli ambiti illuminati dalla fede: innanzitutto, la famiglia fondata sul matrimonio, inteso come unione stabile tra uomo e donna. Essa nasce dal riconoscimento e dall’accettazione della bontà della differenza sessuale e, fondata sull’amore in Cristo, promette “un amore che sia per sempre” e riconosce l’amore creatore che porta a generare figli. Poi, i giovani: qui il Papa cita le Giornate Mondiali della Gioventù, in cui i giovani mostrano “la gioia della fede” e l’impegno a viverla in modo saldo e generoso. “I giovani hanno il desiderio di una vita grande – scrive il Pontefice –. L’incontro con Cristo dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita”. E ancora, in tutti i rapporti sociali: rendendoci figli di Dio, infatti, la fede dona un nuovo significato alla fraternità universale tra gli uomini, che non è mera uguaglianza, bensì esperienza della paternità di Dio, comprensione della dignità unica della singola persona. Un ulteriore ambito è quello della natura: la fede ci aiuta a rispettarla, a “trovare modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità o sul profitto, ma che considerino il creato come un dono”; ci insegna ad individuare forme giuste di governo, in cui l’autorità viene da Dio ed è a servizio del bene comune; ci offre la possibilità del perdono che porta a superare i conflitti. “Quando la fede viene meno, c’è il rischio che anche i fondamenti del vivere vengano meno”, scrive il Papa, e se togliamo la fede in Dio dalle nostre città, perderemo la fiducia tra noi e saremo uniti solo dalla paura. Per questo che non dobbiamo vergognarci di confessare pubblicamente Dio, in quanto la fede illumina il vivere sociale. Altro ambito illuminato dalla fede è quello della sofferenza e della morte: il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare affidamento alle mani di Dio che mai ci abbandona e così essere “tappa di crescita della fede”. All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua presenza che accompagna, che apre un varco di luce nelle tenebre. In questo senso, la fede è congiunta alla speranza. E qui il Papa lancia un appello: “Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino”.
 
Conclusione (n. 58-60): Beata colei che ha creduto (Lc 1,45)
Alla fine della Lumen Fidei, il Papa invita a guardare a Maria, “icona perfetta” della fede, perché, in quanto Madre di Gesù, ha concepito “fede e gioia”. A Lei innalza la sua preghiera il Pontefice affinché aiuti la fede dell’uomo, ci ricordi che chi crede non è mai solo e ci insegni a guardare con gli occhi di Gesù.

XIII Domenica del T.O. – Omelia del Vescovo Mons. Vincenzo Manzella – Basilica Cattedrale Cefalù, 30 Giugno 2013.

Region Capturewww.chiesadicefalu.itSotto lo sguardo amorevole del Cristo Pantocratore, icona dell’Anno della fede, celebriamo la XIII Domenica per annum.
La Parola di Dio ci fa riflettere e ci interroga sul reale significato della vocazione.
C’è una relazione significativa tra la prima lettura e la pagina del Vangelo: si tratta di due scene parallele ma anche differenti.
La prima descrive la vocazione di Eliseo, discepolo ed erede del profeta Elia; mentre la pagina del Vangelo di Luca, presenta tre adesioni di vocazioni che spiegano quali debbano essere le disposizioni di coloro che intendono seguire Gesù.

A Eliseo, infatti, è consentito un arco di tempo prima di mettersi alla sequela di Elia, il tempo di andare a baciare il Padre e la Madre e di concedersi un banchetto di addio con i suoi amici, quasi un distacco graduale e progressivo.

Nel racconto Evangelico, invece, è richiesta una scelta pronta, radicale e totale.

Quando non è più un uomo che chiama, ma Dio in persona, non si può indugiare e voltarsi indietro, neppure per salutare quelli di casa o seppellire il proprio padre.

La chiamata di Gesù è più autorevole e più urgente di quella di Elia, proprio perchè Egli è “di più di Elia”.

In tutti gli episodi di sequela riportati dai Vangeli c’è sempre una costante di prontezza e di distacco.

Gesù a volte chiede cose impensate, ma quel che più stupisce è che ottiene ciò che chiede.

È la storia di ogni chiamata, è la storia di Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni: “venite vi farò pescatori di uomini, e quelli lasciate le reti e il padre lo seguirono” (cfr. Mc 1,16ss) 

Anche oggi, in un mondo che sembra avere resa assurda quella sua richiesta, Gesù continua a far sentire il suo “vieni e seguimi”, e ci sono giovani, ragazzi e ragazze che lasciano la famiglia, i loro affetti, le loro case, i loro sogni e si mettono dietro a lui per essere suoi discepoli.

La vocazione cristiana è un taglio decisivo, spesso anche doloroso, con abitudini, compromessi.

È necessario il distacco dalle cose e dagli appoggi umani e materiali: “Il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il Capo  (Lc 9, 55) .

Può risultare anche facile in un momento di entusiasmo ripetere: “ti seguirò dovunque tu vada” e poi nell’ora della prova fuggire.  

La Vocazione cristiana esige prontezza e abbandono del passato, è perciò rinuncia e distacco: “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”.

La Vocazione cristiana esige perseveranza: “Chi persevererà fino alla fine sarà salvo”.

Il Signore non si accontenta di donazioni parziali, condizionate, a part-time… . “Chi mette mano all’aratro e si volta indietro non è degno di me”.

L’aratro, simbolo del lavoro di Eliseo, diventa segno del nuovo lavoro nella vigna del Signore dove c’è posto per tutti. Non si può nascere stanchi e vivere per riposare, non si può essere pigri e contemporaneamente cristiani.

Modello di compimento di ogni vocazione è Gesù stesso che prendendo la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme, sa di andare incontro alla volontà del Padre che vuole realizzata la sua missione attraverso la morte, la resurrezione e l’ascensione al cielo del suo Figlio.

Gesù in questo viaggio realizza così la sua vocazione.  Il suo andare a Gerusalemme può essere considerato l’emblema del cammino della Chiesa che ha costante bisogno di seguirne le orme per compiere la sua vocazione e la sua missione.

È in Gesù che ogni discepolo deve riconoscersi prendendo ogni giorno la sua croce, rinnegando se stesso e mettendosi dietro a lui. E anche quando la sua missione dovesse registrare insuccessi, rifiuti, persecuzioni, la fiducia del discepolo deve rimanere intatta e serena, perchè lui, il maestro, ce lo ha assicurato: “io sarò con voi fino alla fine del mondo”.

Papa Francesco ci ricorda che il nostro è un Dio “fedele, perché Lui mai può rinnegare se stesso: Lui è la fedeltà” (Santa Marta, omelia del 25/06/2013 . Sia questa la speranza certa che sostiene ogni vera vocazione cristiana, della quale Maria è testimone e custode.

 
 

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