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tirisan

Halloween e la solennità di Tutti i Santi. Lettera pastorale del nostro Vescovo

A tutti i Confratelli del Presbiterio Diocesano

Fratelli e figli carissimi amati dal Signore,

nell’imminenza della Solennità di tutti i Santi sento di rivolgermi a tutti voi per manifestarvi una qualche preoccupazione dettata solo dall’ansia pastorale che penso condividiate.
 E’ già iniziata la corsa ai preparativi per la festa di Halloween.
Le nostre coscienze di pastori non possono non lasciarsi interrogare e riflettere sulla portata che questo fenomeno riveste anche su tanti figli della nostra amata Chiesa cefaludense.
 Basta guardare le vetrine delle pasticcerie e dei negozi di giocattoli. Vi è un’ordinata e “accattivante” esposizione di oggetti, costumi, pupazzi, candele, zucche e maschere.
 Pare ci si trovi di fronte a un secondo Carnevale che assicuri divertimento a genitori e figli.
Ma va puntualizzato con forza e chiarezza che non siamo di fronte a un Carnevale pieno di allegria, spensieratezza, creatività.
 Non vi è nulla di innocuo.
Vi è una subdola ma quanto mai efficace manipolazione nei confronti della visione cristiana della vita e della morte.
Si tende a sradicare il ricordo dei santi e dei defunti. Una festa anglosassone, diventata completamente estranea alla nostra tradizione, minaccia di offuscare la ricchezza spirituale del messaggio cristiano.
 Non possiamo permettere che una festa neopagana in chiave carnevalesca riservata alle streghe prenda il sopravvento sulla Solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione dei nostri cari Fedeli Defunti.
A destare in noi, nei genitori e in tutti gli educatori una responsabile preoccupazione è il fatto che la notte delle streghe con i suoi rituali sta diventando la festa dei nostri bambini che girano per le vie dei nostri paesi vestiti da piccoli mostri, fantasmi o vampiri.
 L’attenzione dei bambini non ruota più attorno agli appuntamenti del calendario cristiano e ai suoi momenti formativi ai veri valori della vita.
 Non può diventare un film di altri tempi vedere un bambino per mano con i genitori dinnanzi alla tomba dei nonni e lì fermarsi a recitare una preghierina e lasciarvi il suo fiore.
 Onorare i defunti, addobbare con sobrietà le tombe con fiori e pregare per i morti è il culto della nostra storia; è il sigillo della gratitudine rivolto a quanti ci hanno amato e abbiamo amato.
 Ma è anche il momento in cui consegniamo alle nuove generazioni il nostro “seme” di speranza nell’eternità.
Non possiamo lasciarci ammaliare e schiavizzare da un calendario consumistico che confeziona feste che hanno il loro fulcro attorno al macabro e all’occultismo e al guadagno spudorato.
A tanti adolescenti e giovani vengono consegnati biglietti-invito per accedere a locali, discoteche che pongono all’ingresso teschi, ragnatele e con camerieri travestiti da morti viventi e tavoli a forme di bara.
Ma non basta.
 Dopo la mezzanotte è anche prevista la presenza di maghi che possono aiutare alla riconquista della persona amata, di cartomanti e chiromanti. Su Internet arrivano proposte per esperienze magiche nella notte dei misteri e del terrore.
 Mi auguro e spero che nelle nostre comunità cristiane si possano trovare proposte pastorali che creino anche un clima di festa alternativo ma coerente ai contenuti della nostra fede senza lasciarsi travolgere dai messaggi ingannevoli di Halloween.
Un maggiore senso critico, su tutte le forme di facile consumismo che il mondo mediatico ci propina come perle di felicità, ci aiuterà ad essere determinati nel non concedere locali parrocchiali anche se dovessero essere altri a voler organizzare incontri o serate apparentemente innocui.
In quest’anno della fede diamo grande spazio alla formazione, senza alcun indugio ricordiamo a tutti il significato profondo delle feste cristiane.
Affidandomi, alla sensibilità, al buon senso e alla creatività pastorale di voi tutti, assicuro la mia vicinanza nella preghiera e affettuosamente vi benedico
 Cefalù, 29 Ottobre 2012

I poveri «poveri» sono quelli che non lasciano nome, sono gli anonimi; l'immensa schiera di coloro che non hanno nome e su cui l'Onnipotenza di Dio stende la sua mano.

Nella festività di tutti i Santi, riportiamo una piccola riflessione di P. Ernesto Balducci, tratta da ” il mandorlo e il fuoco”
(Ernesto Balducci è stato  una delle personalità di maggior spicco nella cultura del mondo cattolico italiano nel periodo che accompagnò e seguì il Concilio Vaticano II. Fu legato a Giorgio La Pira, David Maria Turoldo, Lorenzo Milani, Danilo Cubattoli, Silvano Piovanelli, Mario Gozzini, Bruno Borghi, Raffaele Bensi e molti altri cattolici democratici e “di sinistra” vissuti a Firenze tra gli anni cinquanta e gli anni novanta.)
“Personalmente, quando io cerco di fare la mia, professione di fede, usando un sillabario che sia il più possibile conforme all’indole mia (mi permetto questa confidenza), non oso tanto alzare gli occhi verso una Maestà divina che non so nominare.
Ho sempre .paura, quando parlo di Dio (o quando si parla di Dio), che ci si guardi allo specchio, e si parli di Dio in realtà parlando di noi e dando dimensioni assolute ad atteggiamenti ed espressioni del nostro spirito.
 In genere si nomina Dio senza sapere che quel nome non vale: è idolatria: il mistero del Vangelo sta tutto in una specie di rovesciamento che ci obbliga a verificare la nostra fede non già su un Dio che non vediamo e che può essere, perciò, un luogo di inganno, di auto-inganno, ma sull’uomo.
 E allora la mia professione di fede la misuro sulla quantità di convinzione con cui riesco a dire: «Beati i poveri, i miti, i misericordiosi ecc. ».
Se io sono veramente convinto che beate sono le persone che nella società non contano, e che quindi la linea di Dio, questa linea luminosa che, sotto la coltre della storia, corre verso l’eternità, passa soprattutto tra costoro, se io son convinto di questo io sono nella convinzione morale che la mia fede nel Signore regge, è viva.
 E per quanto mi riguarda io mi devo domandare in che misura io cammino nel tempo regolandomi su questa certezza: che la vera beatitudine, cioè la partecipazione anticipata alla gloria descritta dalla liturgia dell’ Apocalisse, io la vivo nell’esperienza diretta di questa convinzione.
Vorrei dire, senza nessuna intenzione malevola, che i veri santi non sono i santi nominati, sono quelli senza nome.
 Perché, in fondo, chi è stato glorificato, chi è stato seguito, ha sempre avuto un po’ di potere: non è stato «un povero» del tutto.
I poveri «poveri» sono quelli che non lasciano nome, sono gli anonimi; l’immensa schiera di coloro che non hanno nome e su cui l’Onnipotenza di Dio stende la sua mano.
 E questa simpatia organica per i reietti, i semplici, i senza peso specifico, quelli a cui nessun costruttore di società stenderebbe la mano, perché senza storia, questa predilezione scandalosa del Povero di Nazareth per gente del genere: ecco il pungolo che mi contesta.
 Se io penso ai santi (come nel patriottismo di altri tempi si pensava agli eroi dei nostri Pantheon nazionali) come a una gloria della Chiesa io li penso con categorie di potere.
E in fondo mentisco,  violo il mistero di un Dio che si fa beffa di queste nostre classificazioni spirituali.
La santità si estende come un continente invisibile nella società. E noi non abbiamo planimetrie adatte a stabilire dove è il Regno di Dio.
Questo è il mistero.
Non è solo il mistero che riguarda me o che io avverto quando mi interrogo su chi sono e in che senso sono figlio di Dio, ma è un mistero anche nel senso che non è dato discernere quali siano i santi di Dio tra di noi.
Non è detto che siano quelli che vanno in Chiesa, è probabile che no; non è detto che siano quelli che conoscono per filo e per segno i dogmi della nostra fede, può darsi che no.
Il Signore nella sua solenne risposta (come vedete) non fa questioni di dogmi, di pratiche.
La vera storia della fede non si racconta perché se si racconta non è più la vera storia.
La vera storia dei santi non è l’agiografia convenzionale, perché essa è scritta nel libro chiuso da sette sigilli che sarà aperto solo quando vedremo Dio.
Questo non è un modo per giocare col mistero, per annullare le determinazioni di cui la ragione ha bisogno per ragionare sulla società; è un modo di trascendere i nostri discorsi, pur necessari, sulla società, sui progetti dello Stato, sui progetti di giustizia sociale, di trascenderli in una considerazione ultima che ci r-guarda. Quando pensiamo ai nostri morti (come avviene in questi giorni), noi cogliamo la nostra grande tribolazione, la nostra estrema povertà, la fragilità di cui ci dimentichiamo ma che ci viene rigettata in faccia.
Siamo poveri, provvisori.
E questa condizione la dobbiamo accogliere, al cospetto di Dio, con fiducia filiale. In questo modo scendiamo, vivendo la fede, in profondità dove il sì e il no, la luce e le tenebre si incontrano, nei loro terribili estremi.
Attraverso questo discorso è lecito guardare la gloria dei cieli con autenticità.
È molto facile che il discorso sui poveri, sui miti … diventi un discorso di consolazione (anche legittima, in parte) estraneo, per così dire, dal resto delle verità.
Una volta che ci convinciamo che questa è la via, allora siamo tentati di guardare gli altri, cioè i prepotenti, i ricchi, i gaudenti … e così via con una specie di rifiuto, di distacco.
 Si cadrebbe nell’orgoglio.
La fede ci fa certi – ecco un punto importante – che a questa beatitudine dei poveri, dei miti, dei pacifici … sono chiamati tutti gli uomini.
Per cui di fronte ad un prepotente, non mi basta resistere con mitezza alle sue angherie e alle sue malversazioni.
Io devo nello stesso momento essere convinto che questo prepotente è un infelice che aspira alla mitezza.
Se di fronte ad un ricco io mi limito ad inveire contro la sua ricchezza, non sono ancora nella pienezza del segreto di Dio. Devo essere convinto che questo ricco è un disgraziato che fa infelici gli altri e che non ha scoperto la beatitudine dell’essere povero.
 Le qualità espresse dalle beatitudini, sono qualità necessarie alla pienezza del genere umano. Allora, mentre noi ci uniformiamo (nel senso ricco della parola) a questo modello venutoci dal di fuori (le beatitudini del Vangelo) noi rappresentiamo, per così dire, l’intera umanità, trasciniamo verso la gloria anche coloro a cui non è apparsa con evidenza e forza la luce della Rivelazione.”

Sperimentare la beatitudine è una gioia profonda.

Matteo introduce il lettore ad ascoltare le beatitudini pronunciate da Gesù con una ricca concentrazione di particolari.
Innanzitutto viene indicato il luogo nel quale Gesù pronuncia il suo discorso: “Gesù salì sulla montagna”(mt 5,1). 
 Per tale motivo gli esegeti lo definiscono “discorso della montagna” a differenza di Luca   che    lo    inserisce    in   un   luogo pianeggiante (Lc 6,20-26).
L’indicazione geografica della “montagna” potrebbe alludere velatamente a un episodio dell’AT : quando Mosè promulga il decalogo sulla montagna del Sinai.
Un altro particolare che colpisce è la posizione fisica in cui Gesù pronunzia le sue parole: “e, messosi a sedere”. Tale atteggiamento conferisce alla sua persona una nota di autorità. 
Lo circondano i discepoli e le “folle”: un particolare che intende mostrare che Gesù nel pronunziare tali parole le ha rivolte a tutti e che sono da considerarsi attuabili per ogni ascoltatore.
Il discorso di Gesù non presenta degli atteggiamenti di vita impossibili, né che essi siano diretti a un gruppo di persone speciali o particolari, né mirano a fondare un’etica esclusivamente dall’indirizzo interiore. Le esigenze propositive di Gesù sono concrete, impegnative e decisamente radicali

***

Essere poveri nello spirito prima ancora di designare un rapporto con i beni, indica la condizione di chi è libero nel cuore a tal punto da sentirsi povero ed è talmente povero nel cuore da sentirsi libero di accettare la propria realtà, libero di accettare le umiliazioni e di sottomettersi ogni giorno agli altri.
Essere capaci di piangere significa conoscere le lacrime che sgorgano non per ragioni psicologiche o affettive, ma perché il nostro cuore freme meditando sulla propria e altrui miseria.
Assumere in profondità la mitezza significa lottare per rinunciare alla violenza in ogni sua forma, nel contenuto come nello stile.
Avere fame e sete che regnino la giustizia e la verità significa desiderare che i rapporti con gli altri siano retti non dai nostri sentimenti ma dall’essere, dal volere e dall’agire di Dio.
Essere puri di cuore è avere su tutto e su tutti lo sguardo di Dio, partecipando della sua makrothymìa, del suo pensare e sentire in grande.
Praticare la misericordia e fare azioni di pace significa essere capaci di dimenticare il male che gli altri ci hanno fatto, a immagine di Dio che non ricorda i nostri peccati (cfr. Is 43,25).
Essere perseguitati e calunniati per amore di Gesù significa avere una prova che si segue davvero il Signore, perché non tutti dicono bene di noi (cfr. Lc 6,26).
Chi si trova in queste situazioni, chi lotta per assumere tali atteggiamenti, ascoltando le parole di Gesù può sentirsi in comunione con lui e così sperimentare la beatitudine: è una gioia profonda, una gioia che si può provare anche piangendo, ma una gioia che niente e nessuno ci può rapire (cfr. Gv 16,23). Allora davvero “noi non siamo soli, ma ci sentiamo avvolti da una grande nube di testimoni” (cfr. Eb 12,1) che ci hanno preceduto, i santi». (da Gesù, Dio-con-noi, Compimento delle Scritture, Il vangelo festivo (A), Ed. San Paolo 2010, p. 227-228).

***

Finché l’uomo non svuota il suo cuore, Dio non può riempirlo di sé.
 Non appena e nella misura che di tutto vuoti il tuo cuore, il Signore lo riempie.
 La povertà è il vuoto non solo per quanto riguarda il futuro, ma anche per quanto riguarda il passato.
Nessun rimpianto o ricordo, nessuna ansia o desiderio.
Dio non è nel passato, Dio non è nel futuro: Egli è la presenza!
Lascia a Dio il tuo passato, lascia a Dio il tuo futuro.
La tua povertà è vivere, nell’atto che vivi, la Presenza pura di Dio che è l’Eternità» (Divo Barsotti)

XXX Domenica del T.O. Pasqua di Bartimeo.

( Da un commento di Tonio Dell’Olio,  collaboratore di Don Tonino Bello , coordinatore di Pax Christi)
Gridare più forte, ecco cosa si deve fare.
 Gridare più forte anche se non sempre (quasi mai) questo significherà alzare la voce.
 D’altra parte quello che Bartimeo vuole non è certo di disturbare, prevaricare o sopraffare come avviene nei dibattiti dei salotti televisivi. Il grido qui si trasforma in preghiera perché la voce possa raggiungere l’Eterno, là dove non conta il potere (o il volume!) di chi urla, quanto la sincerità di cuore, la povertà che svuota le mani per allargare gli spazi del cuore.
Conta la voce di chi riconosce in quel viandante il “Figlio di Davide”.
Gesù che passa per le strade della Palestina può suscitare il fascino del personaggio del momento o incuriosire la fantasia di qualcuno, poteva arrovellare le elaborazioni delle scuole rabbiniche pronte alla radiografia teologica, poteva persino trasportare emotivamente a un’adesione momentanea… ma per Bartimeo no. Per Bartimeo il nazareno è il Figlio di Davide, ha potere di salvare, di schiodare gli altri dalla croce e di indicare la via per il cielo.
Riconoscere il Figlio di Davide è fiutare presenza di Messia, fare un salto in avanti senza punto d’appoggio e di caduta, compromettersi senza via d’uscita.
Da questo punto di vista forse Bartimeo è l’unico a vederci e a vederci chiaro in quella folla che circonda e stringe il passaggio di Gesù.
A chiamare Gesù Figlio di Davide, nei Vangeli sono soltanto i poveri che chiedono un segno e i bambini che osannano.
E che questo appellativo fosse rischioso e creasse qualche scandalo lo testimonia il rimprovero che i saggi dell’epoca rivolgono a Gesù: “Gli si avvicinarono ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. Ma i sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono e gli dissero: “Non senti quello che dicono?” (Mt 20, 14-16 e paralleli). Anzi gli stessi farisei avevano la certezza che quel riferimento fosse esplicitamente messianico: “Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: ‘Che ne pensate del Messia? Di chi è figlio? ‘. Gli risposero: ‘Di Davide’” (Mt 22, 41-42).
Questo cieco che siede lungo la strada fa una professione di fede ardita, al limite dell’eresia. La sua espressione non è frutto di studi teologici rigorosi e non aderisce ad una scuola che parteggia per Gesù: Bartimeo intuisce, si lascia ispirare, si lascia investire dal dono e grida e prega e confessa… ed è già felice dell’incontro riconoscendosi umilmente peccatore.
 Quell’invocazione: “Abbi pietà di me!” è fiorita sulle labbra di milioni di credenti dopo di lui.
 È la stessa che mille e mille rappresentanti di religioni differenti avrebbero adottato coscienti della superiorità assoluta di Dio e della sua signoria sulla storia e sugli umani.
 Le parole di supplica con cui Bartimeo si rivolge a Gesù sono cariche di sapienza antica. Esse stanno esattamente agli antipodi dell’arroganza e della saccenza con cui i ricchi si rapportano alla vita.
 Siano ricchi di beni o di sapere, di salute o di potere… difficilmente chiederanno pietà per sé. Sono troppo pieni di sé per far spazio e dar credito all’Altissimo, per riconoscerlo all’opera nel mondo e nella propria vita.
Alla cattedra di Bartimeo che grida più forte di quelli che vogliono farlo tacere sono molti gli insegnamenti che apprendiamo.
Il coraggio che sconfigge certe nostre incertezze nel riconoscere il Cristo come Signore della storia, unico Signore della nostra storia è una lezione che possiamo imparare soltanto dai poveri, dagli anawim come li chiama la Scrittura.
Don Tonino Bello s’era imbattuto un giorno in una povera mamma che abitava in una baracca di un quartiere misero alla periferia di Buenos Aires e, tra le altre cose scorse un piccolo libro del Vangelo sul tavolo della cucina. Se ne compiacque con la signora che le rispose: “Nuestra sola esperanza por nuestra pobreza”, l’unica speranza per la nostra povertà.
A questa fede che proviene dai bassifondi della storia siamo chiamati ad attingere se vogliamo riscoprire la gioia del credere e scorgere il passaggio del figlio di Davide lungo le nostre strade. Dopo tutto Gesù si presentava in tutto simile agli uomini, uno tra gli altri, scoprirne il volto è operazione che riesce solo a chi ha occhi attenti e voce pronta.

I concili nei secoli
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I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



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CONCILIO VATICANO I°

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