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tirisan

Stupore, stima e affetto all'annuncio della rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino.

Chiesa di CefalùIl Papa ha annunciato oggi la sua rinuncia al ministero petrino. Questa la sua dichiarazione stamani durante il Concistoro per tre canonizzazioni.
( Cliccando sull’immagine accannto si potrà aprire il video. Di seguito il testo della dichiarazione )
Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando.
Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato.
Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei difetti.
Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice.
Per quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.

Ricordando Giuseppe Dossetti nel centenario della nascita.

giuseppe-dossettiNel centenario della nascita di Giuseppe Dossetti un ricordo di Enzo Bianchi sulla ” Stampa” del 10 Febbraio 2013.
Nel centenario della nascita di Giuseppe Dossetti (13 febbraio 1913), alle molte iniziative per ricordare quella straordinaria figura di uomo politico e di cristiano del secolo scorso si sono anche contrapposte – e c’era da aspettarselo – voci critiche su di lui e la sua opera. Questo perché Dossetti è tuttora una presenza ispirante in Italia, un personaggio capace di fornire argomenti per i confronti ancora in corso. Purtroppo in questo dibattito, cosa inconsueta, proprio nell’ambito ecclesiale si registra un pesante silenzio nel quale si levano alcuni interventi accaniti, tesi a delegittimare la sua figura. Questo provoca in molti cristiani una grande sofferenza, fa emergere quanta ingratitudine possa annidarsi in spazi ecclesiali e quanta insensatezza possa ispirare alcuni ecclesiastici.
Si dice che Dossetti non era un teologo, che nel suo pensiero c’erano lacune perché la sua formazione era quella di un giurista e il suo curriculum era privo di studi di teologia in una facoltà cattolica, senza ricordare che tratti analoghi sono riscontrabili anche in grandi Padri della Chiesa, a cominciare da sant’Ambrogio… Si dice che avesse di Israele quale popolo di Dio e della sua salvezza una lettura non conforme alla dottrina cattolica, quando in realtà egli si interrogava su posizioni teologiche emerse nella Chiesa cattolica all’inizio degli Anni Ottanta, senza mai giungere a sostenere che per gli ebrei fosse possibile una salvezza senza Cristo. Se Giovanni Paolo II con audacia – che non mancò di sorprendere persino molti tra quanti erano impegnati nel dialogo ebraico-cristiano – era giunto ad affermare nella sinagoga di Magonza che Israele è «il popolo di Dio dell’antica alleanza mai revocata», significa che essa è tuttora in vigore e, come ci insegna la Scrittura, è un’alleanza di salvezza. Ma questo non equivale certo a una salvezza senza Cristo, senza il Messia promesso e atteso dal popolo della prima alleanza. Solo Gesù Cristo è il salvatore di tutti, e questa verità di fede era in don Giuseppe Dossetti una confessione salda e incrollabile come roccia.
Vi è anche chi critica il dossettismo come via politica, e su questo è più che giusto lasciare che le interpretazioni restino diverse come sempre sono state, purché non si finisca col mettere in contraddizione tra loro la fede cattolica di Dossetti e il suo impegno politico precedente la scelta presbiterale e monastica. Ma è sull’aspetto cristiano ed ecclesiale che ritengo di poter dire alcune parole più personali.
Ho incontrato per la prima volta don Giuseppe a Monteveglio nel novembre 1966: dopo aver ascoltato la sua omelia, ebbi la possibilità di un dialogo personale con lui su temi ecumenici e monastici. Io ero giovanissimo, mentre lui aveva da poco terminato la sua preziosissima opera al Concilio, dove aveva fornito un apporto decisivo di studio, di consigli e di elaborazione di proposte,
coadiuvando in particolare il suo vescovo, il cardinal Lercaro di Bologna. Quell’uomo mi diede subito l’impressione di essere un cristiano «morsicato» dal radicalismo evangelico, un monaco rigoroso, consapevole di essere stato posto come sentinella sulle mura della Chiesa per gridare, a tempo e fuori tempo, di notte e di giorno, le esigenze del Vangelo.
Quando nelle lunghe veglie a Monteveglio, in Terrasanta, a Montesole commentava la parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, sembrava di ascoltare un Padre della Chiesa: si sentiva la sua competenza linguistica per la lettura dei testi nella lingua originale, la sua conoscenza dei Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, la frequentazione dell’esegesi storico-critica della seconda metà del secolo scorso. Verso quest’ultima nutriva a volte dei timori e per questo preferiva la lettura «in ecclesia», nel solco della grande tradizione, una lettura pregata. Leggendo i volumi finora editi delle sue omelie, non si finisce mai di imparare, di conoscere in profondità il messaggio delle Scritture di Israele e della Chiesa.
Dossetti era un cristiano «obbedientissimo», che si imponeva di non criticare l’autorità della Chiesa,soprattutto i suoi vescovi, anche quando non era d’accordo e il suo giudizio sarebbe potuto sembrare contestazione. Allora preferiva tacere. Anche per questo lasciò l’Italia e con alcuni fratelli e sorelle andò in terra d’Israele. Mentre don Giuseppe risiedeva a Gerico, sostai cento giorni a Gerusalemme e potei incontrarlo più volte, e anche p. Carlo Maria Martini, allora all’Istituto biblico di Gerusalemme, veniva ad ascoltare le sue omelie. Ricordo che Dossetti passava ore in preghiera al santo Sepolcro. A Gerico viveva in baracche precarie, in un clima a volte torrido, e per le sue salite a Gerusalemme viaggiava su autobus stracolmi di arabi poveri. Un uomo di famiglia agiata, che era stato deputato della Repubblica e un’autorità morale nella Chiesa, avviandosi verso l’anzianità aveva intensificato la sua sobrietà conducendo una vita da povero, segnata dall’ascesi, da pesanti disagi e da un anonimato quotidiano nei territori palestinesi occupati da Israele. Vescovi e cardinali, semplici e poveri cristiani, personaggi importanti della vita sociale, giovani, non credenti, andavano a cercare una sua parola e lui sovente si sottraeva, quasi nascondendosi. Si diceva frequentemente: «Com’è difficile incontrare don Giuseppe!». Ma negli incontri i suoi occhi lampeggiavano, quando faceva discernimento alla luce della parola di Dio, quando cercava di leggere i «segni dei tempi» ascoltando anche l’umanità: la sua parola era tagliente come spada e possedeva un’autorevolezza rara. Come per Antonio, il grande Padre del deserto, di lui si potrebbe dire: «Bastava vederlo».
Quante volte, anche dopo il suo rientro in Italia, sono andato da Dossetti per confrontare le nostre sollecitudini e le nostre ansie, per comprendere maggiormente dove stavamo andando come cristiani: le sue parole erano frutto di preghiera, di assiduità con la Bibbia, di liturgia eucaristica e di letture diversissime. Davvero una vita segnata da una coerenza che altri non riuscirebbero nemmeno a pensare. È veramente triste che oggi la sua Chiesa non lo riconosca. Ma in questo tempo il vento soffia in direzione contraria, e don Giuseppe l’aveva umilmente previsto e denunciato. Da parte mia, nei suoi confronti mi sento di osare una parola forte, con la libertà di chi non è stato suo discepolo ma, anzi, ha avuto sguardi diversi sul monachesimo nel mondo di oggi e sulle altre Chiese cristiane: era veramente un santo, un uomo di Dio e di nessun altro!
 

Messaggio di Papa Benedetto XVI per la Quaresima 2013

PAPA:SI INTITOLA 'L'INFANZIA DI GESU" NUOVO LIBRO RATZINGERCari fratelli e sorelle,
la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede , ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.
1. La fede come risposta all’amore di Dio.
Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva… Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un ”comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est). La fede costituisce quella personale adesione – che include tutte le nostre facoltà – alla rivelazione dell’amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai “concluso” e completato» (ibid., 17). Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell’«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore – «caritas Christi urget nos» (2 Cor5,14) –, è aperto in modo profondo e concreto all’amore per il prossimo (cfribid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.
«La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! … La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).
2. La carità come vita nella fede
Tutta la vita cristiana è un rispondere all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfrGal2,20).
Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr1 Gv4,12).
La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr1 Tm2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfrEf4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfrGv15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfrGv13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfrGv1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfrGal5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfrMt25,14-30).
3. L’indissolubile intreccio tra fede e carità
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l’atteggiamento di chi mette in modo così forte l’accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo. Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall’attivismo moralista.
L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012). Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8).
In sostanza, tutto parte dall’Amore e tende all’Amore. L’amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l’annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell’Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri.
A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione dellaLettera di san Paolo agli Efesiniriassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10). Si percepisce qui che tutta l’iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente. La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.
4. Priorità della fede, primato della carità
Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all’azione dell’unico e medesimo Spirito Santo (cfr1 Cor13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor12,3) e «Maranatha!» (1 Cor16,22;Ap22,20).
La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l’unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell’amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfrRm5,5).
Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l’Eucaristia. Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l’Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall’umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr1 Cor13,13).
Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!
Dal Vaticano, 15 ottobre 2012 
BENEDICTUS PP. XVI

V Domenica del T.O – Con la sua grazia Dio trasforma in fiducia il sentimento di inadeguatezza alla sua proposta.

Gettae le retiMi permetto in questa omelia di essere un po’ autobiografico, perché ho un rapporto molto speciale con il brano evangelico di oggi. È il brano che si proclamava nella liturgia domenicale della V domenica per annum del 1980, la domenica in cui celebravo, per la prima volta nella mia vita, nel Duomo di Milano, facendo l’ingresso in diocesi come arcivescovo.
Mi leggevo allora in questo brano, vedevo nella folla che «faceva ressa» intorno a Gesù le tantissime persone che riempivano la Cattedrale – erano circa 10.000 – e all’esterno gremivano la piazza.
Soprattutto sentivo, come Simone, la mia inadeguatezza: «Signore, non sono capace. Per tutta la notte ho faticato e ho preso ben poco». Sperimentavo la condizione di Pietro, umiliata e inadeguata, come la mia. E percepivo insieme che dovevo dar fiducia alla parola di Gesù, facendone programma.
«Sulla tua parola», dunque fidandomi di questa Parola, proclamandola, spiegandola. Del resto il brano comincia proprio sottolineando che Gesù predicava la parola di Dio; e tutto il testo nel suo insieme esalta la Parola, la parola di Dio predicata da Gesù e la parola di Gesù lanciata a Pietro: «Prendi il largo e calate le reti».
Per me prendere il largo voleva dire entrare in una funzione della quale non avevo nessuna esperienza, entrare in contatto con un mondo totalmente nuovo; significava un po’ passare dalla terra alla luna, cioè da un servizio di tipo scientifico, istituzionale, accademico, al servizio pastorale, ricominciando da zero, non conoscendo nessuno e nulla. Era veramente un fidarsi soltanto della parola di Gesù.
Avvertivo che mi veniva data questa fiducia dalla grazia Dio.
Non l’avevo in me, non la traevo da un’esperienza di ministero che mi mancava. Non avevo la minima idea di che cosa fosse una diocesi, avevo studiato poco il Diritto canonico perché mi ero dedicato soprattutto agli studi di sacra Scrittura. Non sapevo, per esempio, che cosa fosse una Curia o quale fosse la funzione di un Vicario generale! E tutto mi veniva offerto, messo tra le mani, con una sola assicurazione: prendi il largo, butta le reti per la pesca.
La verità della parola di Gesù l’ho sperimentata anno dopo anno, e sempre più ho visto la bellezza dell’ avventura che vivevo e dell’ essermi fidato di lui. Benché tante siano state le mie negligenze e inadempienze, tuttavia mi sembrava che le reti si riempissero di pesci, una quantità enorme, inattesa, e le reti quasi si rompevano.
A poco a poco cresceva in me il timore di essere inadeguato e dicevo: «Signore, perché questo a me? Allontanati da me che sono peccatore!».
Stupore, timore, senso di indegnità, e sempre il Signore mi diceva: «Non temere, d’ora innanzi sarai pescatore di uomini».
Questo testo ricorre una volta all’ anno nella liturgia feriale e due volte quando nella liturgia domenicale si legge il vangelo di Luca. E per tutti i 22 anni e 5 mesi in cui ho servito la Chiesa di Milano, ho rivissuto gli stessi sentimenti.
( C. M. Martini )

I concili nei secoli
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I° CONCILIO DI NICEA



I° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



I° CONCILIO DI EFESO



I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



CONCILIO DI BASILEA



V CONCILIO LATERANENSE


CONCILIO DI TRENTO



CONCILIO VATICANO I°

Incontri sulla Dei Verbum
Incontri sulla “ DEI VERBUM” Comunità Itria dal 26 Novembre 2018. Per accedervi click sull’icona che scorre di seguito .
Introduzione alla lectio divina
Cliccando sulla copertina del libro o sulla voce del menu “ pregare la parola” leggiamo ogni giorno una pagina del libro di Enzo Bianchi per entrare nello spirito della Lectio Divina.
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