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XVI Domenica del T.O. – La pazienza di Dio è una sola cosa con il suo amore. Il Dio che amo non è il Dio che fa giustizia secondo le mie pretese.

Forse là dove si alzano i labari cristiani c’è molta zizzania e là dove si alzano i labari dell’ateismo c’è molto grano buono.


È difficile ricordarci di Dio come Padre di fronte a certi atti che avvengono. È molto più nella logica chi dice che tutto va a caso.
Il credente che non ha avuto la tentazione di non credere non è un credente, il credente che non ha avuto la tentazione di negare che esiste una paternità di Dio non sa cosa è la paternità di Dio.
Chi non ha attraversato il travaglio del Getsemani in cui anche Gesù fu tentato, o della Croce, quando anche Egli si senti abbandonato, non sa cos’è davvero la paternità di Dio. Anche di essa non si chiacchiera facilmente né per affermarla né per contestarla.
 Il credente sa che la conoscenza della paternità di Dio è opera dello Spirito, come dice Paolo: è lo Spirito, che è in noi, che conosce Dio e Dio conosce noi in quanto conosce lo Spirito suo che è in noi.
Potrei dire,  indulgendo appena ad un linguaggio difficile, che ogni fede che ha i caratteri dell’immediatezza è sbagliata. La fede non ha mai immediatezza. È sempre mediata dallo Spirito di Dio.
In termini più comprensibili: ogni qual volta noi vediamo nella nostra esperienza realtà che sono segno dell’assenza di Dio, noi non le dobbiamo scansare, ma dobbiamo proprio interrogare Dio perché non è presente, perché ci abbandona.
Ed è lo Spirito di Dio, allora, che restaura in noi la fede, ma non una fede dicibile, traducibile in concetti, in articoli di giornali, ma una fede che ama il silenzio, che adora un Dio che si manifesta attraverso le forme di una assenza che rimandano alla sua infinita pazienza.
 Questa è la parola che mi piace di più perché ben traduce una certa immagine di Dio di cui mi fa obbligo la Scrittura: la pazienza di Dio.
La nostra esperienza personale ci dice che ci sono nel processo della società e nella vita familiare, momenti negativi, in cui occorre pazienza: essi sono un passaggio verso altri esiti.
Sopportiamo il momento doloroso che viviamo perché la nostra intelligenza ci rende consapevoli che si tratta di un trapasso verso qualche altra cosa più positiva: la pazienza nasce anche dalla comprensione dei processi umani.
Ebbene su di noi c’è una pazienza infinita perché è infinita sapienza.
Credere significa anche far credito a questa sapienza di Dio.
Certo, ci sono momenti negativi nella storia collettiva, il cui svolgimento con ogni probabilità sorpassa la mia parabola esistenziale: momenti che io non vedrò superati perché ci morrò dentro.
La pazienza di Dio si libra sulla storia degli uomini connettendo al suo disegno (che noi non conosciamo ma che è disegno di amore) anche quei momenti negativi che per me rimangono irrimediabilmente tali.
Questo scandalo io non lo posso non vivere con tutta la mia umanità.
La fede spesso crea una specie di contatto soffice con la realtà, allo scopo di eluderla, circoscriverla, senza mai entrarci dentro. La fede che è secondo lo Spirito ci butta invece dentro la realtà, ma non perché poi ne usciamo come ragionieri sapienti a render conto agli indotti che cosa Dio ha voluto.
La sapienza di Dio si manifesta come pazienza che avvolge la ,storia.
Questa pazienza di Dio, diventa, nell’uomo di fede, mitezza, la grande mitezza di cui il Signore ci ha dato testimonianza.
 Se io non so quale sarà l’esito di una creatura ma so che Dio lo sa, allora io rimetto a Lui la presunzione del giudicare.
Il mio giudizio non potrà essere che mite, perché, al di là di tutte le cose, so che la pazienza di Dio è una sola cosa con il suo amore.
E può anche essere che nella gloria eterna io mi trovi di fronte al mio peggiore nemico pacificato con Lui.
Il Dio che amo non è il Dio che fa giustizia secondo le mie pretese. La sua giustizia sorpassa il diritto e il torto e avvolge tutto in una conciliazione che ci porta oltre i nostri limiti di creature.
Chi crede così non ha una bandiera per cui combattere, perché a livello della storia il luogo in cui Dio mi attende e mi interpella è l’uomo vivente.
Il mio vero modo di onorare Dio è di combattere per l’uomo e di esser mite con l’uomo. Questa mitezza non è dunque ignavia né inerzia interiore, perché è una mitezza dialettica, drammatica, che rinasce costantemente.
Che mi importa sapere se uno è ateo o non è ateo? Chi sono io, io che, se ho fede davvero, so che quando parlo di Dio non ‘so quel che dico?
Potrò davvero ridurre il mio confronto con i non credenti ai livelli delle dottrine scritte nei libri, nelle enunciazioni concettuali?
La negazione violenta dell’ateismo è molto consustanziale alla fede.
Un certo ateismo che nasce in nome dell’uomo, è un contributo alla fede, perché una fede che si è sviluppata contro l’uomo è sicuramente l’opposto della fede.
Come possiamo noi allora usurpare la potenza di Dio per metterla al servizio delle «legioni cristiane »?
Se dovessimo davvero, per un momento, tentar di distinguere chi è zizzania o no, nel campo del mondo, non sapremmo che dire.
 Forse là dove si alzano i labari cristiani c’è molta zizzania e là dove si alzano i labari dell’ateismo c’è molto grano buono.
Chi potrà decidere?
E chi vorrà allora chiamarci a combattere? Contro chi?
Ecco quali sono gli interrogativi che nascono dopo che la fede si è reimmersa nelle proprie origini, dove sono le sue Vere misure. (   Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 1)
 

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