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Lettura continua del libro ” Pregare la Parola” (Quinto Capitolo -C)

V° CAPITOLO :FORMAZIONE ALLA «LECTIO DIVINA»

C) BUSSATE NELLA PREGHIERA,

ENTRERETE NELLA CONTEPLAZIONE

XXXIX  GIORNO

Su quest’ultimo punto, il fine della lectio, noi saremo molto discreti, perché crediamo sia difficile determinare e guidare un tale momento, che differisce da persona a persona e che è il risultato e non il mezzo della lectio divina.

In realtà tutto quel che abbiamo descritto finora è già una forma di preghiera, ma è a questo punto che il lettore deve prendere coscienza di questo fatto e sentirsi più che mai orante.  La lettura, infatti, nella meditazione tende a portare noi al rapimento in Dio. Agostino con intelligenza ci avverte su questo passaggio: «Se il testo è preghiera pregate, se è gemito gemete, se è riconoscenza siate nella gioia, se è un testo di speranza sperare, se esprime il timore temete. Perché le cose che sentite nel testo sono lo specchio di voi stessi››.

      Si entra così nella conversazione con Dio con lo spirito e l’atteggiamento del testo, e noi non possiamo far altro che una preghiera gradita. La Parola è venuta in noi e ora torna a Dio sotto forma di preghiera. Il «quando ascolti, Dio ti parla; quando preghi, tu parli a Dio›› di Ambrogio, si compie: il movimento si chiude, è completo.

     Ed è questa la vera preghiera cristiana: una preghiera che si può esprimere come supplica, domanda, intercessione, lode, ringraziamento…, che può cioè conoscere tutte le forme della pienezza della relazione con l’Altro, ma che trae il suo canone dalla Scrittura e che è plasmata dalla Parola di Dio e dallo Spirito che ha originato tale Parola e che ha presieduto alla sua incarnazione. La preghiera cristiana è ed è sempre stata opus Dei: Parola proclamata, ridetta, mormorata, meditata, cantata fino a divenire contemplazione e intercessione rivolta al Padre, per Cristo, nello Spirito santo. «Cerca di non dire niente senza di lui», ammonisce ancora Agostino, «ed egli non dirà nulla senza di te››. Cioè: prega con le parole di Dio ed egli allora non manderà a vuoto la sua Parola e non avrà segreti per te. Tutto ti dirà, tutto Dio ti mostrerà.

   Guglielmo di Saint-Thierry definisce come preghiera meditativa quella che esce da un cuore toccato dalla divina Parola: preghiera che è il vero fiume che nasce dal tempio – al cui interno era custodita l’arca contenente la Parola – di cui ci parla Ezechiele (cf. Ez 47.1 ss.), preghiera che è il vero gocciolare del cuore ferito dalla spada a due tagli, dalla Parola di Dio che penetra e ferisce ( Eb 4,12); e da qui che nasce la contemplazione.

XL  GIORNO

La preghiera è la mia risposta a Dio. Egli si era dato a me nella lettura e io mi do a Lui nell’orazione

Anche Girolamo dice di «parlare allo Sposo pregando››, per percepire la sua presenza quale emerge dal testo e farla propria in un amoroso colloquio. Gli anawim del Nuovo Testamento rispondono, infatti, alla Parola di Dio ridicendo a lui con il Benedictus, con il Magnificat, con il Nunc dimittis la medesima Parola che Dio aveva detto nei libri della prima alleanza

Ed è una risposta nell’umiltà, nella piccolezza, ma anche nella parresia, nella franchezza, che e possibile proprio perché si parla a Dio con le sue parole.

Preghiera franca, forte e potente è quella che sgorga dalla lectio divina! Il cristiano non ha altro mezzo più certo per una preghiera autentica, come ha capito l’intelligenza liturgica della chiesa cattolica: infatti alle letture proclamate essa non fa altro, con il responsorio, che fare acclamare i fedeli con parole bibbliche.

       L’oratio segue forzatamente alcune fasi come risposta alla lettura.  Innanzitutto  la preghiera inizia con il canto, il ringraziamento orale, verbale, sovente sensibile: «Come sei grande, Signore, mio Dio!» «Come sono grandi le Tue opere Signore !›› (Sal. 104,1.24) «Tu mi rallegri, o Signore, nel tuo agire, mi stupisco davanti alle tue opere» (Sal. 92.5).

      É un momento di ebbrezza che sfociare in lacrime di gioia come in una danza. Danzerò per te, l’Altissimo! Ci si sente pazzi di amore per il Signore, si vorrebbero convocare amici, fedeli, credenti, poveri, per comunicare loro questa esperienza, che in verità resta inenarrabile (Sal 34.2 ss.). Ma si ha il cuore così pieno di Dio che questo trabocca: «I poveri vedano e si rallegrino›› (ivi 34.3), e tutti gustino come e buono e soave il Signore (cf. ivi 34.9).

    Indubbiamente questa sensazione non può essere abituale e quotidiana, ma a volte ci è riservata e noi allora dobbiamo accoglierla con ringraziamento e per nulla reprimerla.

David sembrò ebbro quando vide la Parola di Dio nell’arca venire a lui (2Sam 6.14 ss.); Anna sembrava ubriaca quando parlava piena di commozione a Dio (1Sam 1.9-18); i profeti sovente erano in preda a questi stati di gioia. E non sono privilegio loro, a volte sono anche esperienza nostra. Certo, noi non dobbiamo cercarli come fine; ma se arrivano, non respingiamoli.

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XLI GIORNATA

Segue poi una fase di stupore e di meraviglia, in cui la Parola che ci ha fatto gioire, la Parola che era accanto a Dio e con Dio, è ormai in noi ed è luce, via, vita nel nostro profondo. Non abbiamo più bisogno di gridare: lasciamo che questa Parola salga, come incenso, senza rumore e pacificamente, al cielo. E la fase dei gemiti inenarrabili e ineffabili dello Spirito che noi appena percepiamo. Di fatto ci riposiamo in questa Parola, ed è lo Spirito che ci eleva interamente verso Dio, che ci innalza totalmente e ci rapisce. Qui l’oratio diventa fede più forte e più chiara di prima, e niente di più. La sentiamo come la focaccia apprestata per Elia nel suo viaggio nel deserto (1Re 19.5-8), come l’acqua di Agar languente nel deserto (Gen 21.19), come la presenza fisica di Gesù fu sentita da Giovanni posato sul suo petto nell’ultima cena (Gv 13.25).

     Colloquio quieto con Dio, senz’altro desiderio che quello di restare accanto a lui. Presenza e vicinanza che diventano sempre più silenziose, come in una passeggiata tra amato e amante in cui, a un certo punto, dopo il dialogo e la gioia dello stare insieme si sta semplicemente accanto. Non si dice più nulla, parlano soltanto gli occhi, il cuore. Così, sempre più vicini a Dio, si conosce a fondo il suo pensiero, si sente il suo cuore scoperto nel testo e ci si abbandona.

    Guigo II Certosino concludeva la lectio divina con questa preghiera: «Tu spezzi per me il pane della sacra Scrittura e nello spezzare del pane ti fai conoscere a me. Avviene allora che quanto più ti conosco, tanto più desidero conoscerti, non soltanto nella scorza della lettera, ma nella percezione sensibile dell’esperienza.

Non lo chiedo a causa dei miei meriti, Signore, ma per la tua misericordia. Io sono un’anima indegna e peccatrice, lo confesso; ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Dammi dunque un pegno dell’eredità futura, Signore, dammi almeno una goccia di pioggia celeste che procuri un po’ di refrigerio alla mia sete, perché sono febbricitante d’amore››.

    Tutto questo a volte non è facile, e questa preghiera finale non è naturale; ecco perché occorre perseverare nella preghiera, bussare perché ci venga aperto, o meglio ancora occorre lasciar bussare il Cristo nel testo sempre più forte, finché siamo vinti dalla sua voce e apriamo la porta (cf. Ap 3.20).

Allora egli entra, siede a mensa con noi, non ci parla neanche, perché quando c’è lui non abbiamo più bisogno di udire la sua parola. È lui la Parola fatta carne. Non ci resta che contemplarlo nella fase ultima della lectio divina che è la contemplazione.

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XLII  GIORNATA

La contemplazione non è qualcosa cui arriviamo con sforzi personali, non è uno stato che sopraggiunge dall’esterno, bensì è il frutto naturale maturato dal germoglio della nostra lettura pregata.

Certo, il Signore ormai è di fronte a noi a tavola. Abbiamo bussato nella preghiera e siamo entrati nella contemplazione. Sinergia anche qui, perché anche lui ha bussato nel testo al nostro cuore ed è entrato nella parte più interiore e più profonda del nostro essere. Non ci resta che guardarlo e contemplarlo come Maria di Betania ai piedi del Maestro (Lc 10.39); e allora, se ci distraiamo, c’è sempre una voce che ci dice: «Il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11.28). E ogni pagina della Scrittura ci svela questo Cristo e ce lo fa emergere nella Lectio divina. Egli si annuncia a noi suscitandoci  stupore.

Ammirazione, sorpresa, stupore: la contemplazione è innanzitutto questo. Lo sguardo di Dio che nella lectio divina si è manifestato su di noi diviene ora in noi il nostro sguardo più profondo con cui guardiamo la realtà e gli altri scoprendo la presenza di Dio che è dappertutto. La contemplazione non è estasi, né esperienza straordinaria, ma è l’ordinario, il guardare a chi è «il più bello tra i figli dell’uomo›› (Sal. 45.3), a colui che è «buono e fa il bene» (Sal 103.3 ss. e 119.68).

  È esperienza di fede, non di visione, perché noi continuiamo a camminare alla luce della fede e non delle apparizioni (cf. 2Cor 5.7). Il velo che era tra noi e la Scrittura è stato rimosso perché in Cristo si è dissolto (ivi 3.14). Perveniamo così a una  conoscenza contemplativa, quella di cui ci parla Paolo in Ef. 3.16-17: Cristo abita nei nostri cuori mediante la fede, e l’uomo interiore, cioè il nostro cuore, lo contempla, lo vede con gli occhi della fede. Dunque la contemplazione non può provenire dalla meditazione fatta di sforzi e di esercizio di volontà, ma è un dono di chi illumina i nostri occhi, anzi «gli occhi del nostro cuore›› (ivi 1.18).

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XLIII GIORNATA

Perveniamo a quella conoscenza di Dio richiesta dai profeti e soprattutto da Osea 6.6: «Voglio la conoscenza di Dio piuttosto che azioni volontaristiche (olocausti)››.

Giovanni di Fecamp così trascrive la sua esperienza: «In nulla il mio spirito gode quanto nel momento in cui alzo verso di te, Dio solo, lo sguardo semplice di un cuore puro! Tutto tace, tutto è calmo, il cuore arde di amore, l’anima è ricolma di gioia, la memoria è piena di forza e l’intelligenza di luce. E lo spirito intero, infiammato dal desiderio di vedere la tua bellezza, si vede rapito nell’amore delle realtà invisibili ».

La contemplazione ci deve portare al rapimento dei beni invisibili, come canta il prefazio di Natale con le parole di Paolo (2Cor 4.18). Un rapimento nella fede, non sentimentale, tanto meno sensitivo, un rapimento in cui ci sentiamo cogliere rinunciando a cogliere, e con il quale ci rimettiamo totalmente a Dio.

Ciò che presiede a questo passaggio dall’orazione alla contemplazione, non dimentichiamolo, è la fede unita all’amore: la fede che ci fa scorgere quella gloria che brilla sul volto di Cristo (ivi 4.6), l’amore che ci toglie lo sforzo del pensare molto e ci fa invece desiderare molto, amare molto.

  Cessa la meditazione e si entra in contemplazione rigettando ogni pensiero. Anthony Bloom osserva a questo proposito: «Dopo che la meditazione ci ha introdotto nella contemplazione, diventa inutile cercare e pensare. Riflettere su Dio diventa cosa stupida, quando si è alla sua presenza! I Padri ci mettono sempre in guardia dalla tendenza a sostituire l’incontro con Dio con dei pensieri su Dio».

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XLIV  GIORNATA

E a questo punto c’è poco da dire. Solo ognuno di noi può scoprire la profondità della contemplazione, la larghezza, la profondità, la lunghezza e l’altezza del mistero di Cristo (cf. Ef 3.18). Qui possiamo non aver più coscienza di pregare e la nostra preghiera è allora perfetta. Antonio il Grande, il padre dei monaci, diceva giustamente: «La preghiera non è perfetta quando il monaco ha coscienza di sé e ha coscienza di pregare!».

Nessuno sguardo su di noi è più possibile, nessun sentimento della preghiera: solo il volto di Cristo ci sta davanti e nella sua luce noi contempliamo la luce di Dio, del Padre. Il nostro corpo c’è ma non ci pesa, e senza che noi ce ne accorgiamo è trasformato di gloria in gloria a immagine di colui che contempliamo (2Cor 3.18). A viso scoperto rispecchiamo infatti la gloria di Cristo e diventiamo una sola cosa con lui.

La lectio divina, giunta così alla soglia della visione, si fa escatologica, prepara a quel momento finale che è la venuta di Cristo, quando la contemplazione sarà eterna. La lectio divina produce quel frutto che accelera l’evento finale e ultimo, e ne è insieme la profezia.

   Al credente dunque che pratica quest’assiduità  con a Parola sarà inutile ricordare che non gli resta che realizzarla.

 

Amerei qui iniziare un altro paragrafo con alcune linee direttrici, e lo potremmo intitolare, sulla scorta del metodo della lectio divina; «Realizzate la Parola, testimonierete il Signore».   Ma ciò non farebbe più parte del tema che ci eravamo proposti e poi siamo coscienti che la Parola è potente, cioè capace di chiamare, convertire, operare.

L’uditore della Parola deve diventare realizzatore della Parola (Mt 7.24; Gc 1.22). Solo così egli ottiene il fine che si era prefisso con la lectio divina, cioè la prossimità, la vicinanza, la comunione con Dio. La misura di questa comunione, espressa nei termini umani usati da Cristo – «fratelli››, «sorelle››, «figli» -, dipende dal fare la volontà del Signore, dal far passare negli atti, e in ogni istante e in ogni circostanza, la Parola di Dio (Mt 12.48-50).

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XLV  GIORNATA

Cesario di Arles ammoniva che l’ascolto della Parola non può lasciare neutrale l’uditore. La Parola di Dio opera redenzione o condanna in chi la riceve, come il corpo di Cristo eucaristico (cf. 1C0r 11.29). Egli predicava: «Se qualcuno non consuma nella pratica la Parola di Dio, essa come la manna fa i vermi i quali rodono». Ecco l’effetto giudiziale di quella spada a due tagli che è la Parola.

   Una volta che la Parola annunciata e accolta, conservata, meditata nel cuore al modo di Maria (Lc 1.38; 2.1951), occorre poi visitare, servire il prossimo (cf. Lc 1.39-45).   L`ascolto vero della Parola deve portare alla prassi, all’andare nel mondo per visitare l ‘uomo e cercare di fargli trasalire nel cuore quell’immagine cheegli porta in sé, l’immagine di Dio, la quale è sempre ricettiva alla voce del Creatore, del modello, del prototipo. Impegnarsi dunque a concretizzare la Parola; così gli uomini potranno rendere gloria al Padre che con la Parola produce in noi il volere e l’operare (cf. Fil. 2.13).

   La lectio divina non è soltanto una scuola di preghiera, è anche una scuola di vita. In essa Dio ci chiama, ci parla, suscita in noi la docile risposta, ma per inviarci, per fare di noi dei «mandati››, dei «missionari» nel mondo.

Questo passaggio dalla lectio divina alla prassi così era sintetizzato da Ambrogio: «La lectio divina ci porta alla pratica delle azioni buone. Perché come la meditazione delle parole ha per fine il memorizzarle, sicché noi ci ricordiamo delle parole meditate, così la meditazione della legge, della Parola di Dio, ci fa tendere e ci porta all’azione››.

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XLVI  GIORNATA

Conclusione

Con queste elementari note sulla lectio divina abbiamo voluto dare la possibilità di gustare nuovamente un metodo di lettura antico quanto la chiesa, metodo che aveva a sua volta profonde radici nel giudaismo.

Non crediamo di aver detto cose nuove, semplicemente abbiamo rapidamente fatto ricorso alla tradizione patristica e monastica, che della lectio divina ha fatto il proprio cibo con l’Opus Dei, la liturgia della Parola, la preghiera.

E concludiamo con un’osservazione: ci siamo accorti che il credente che segue questo metodo, adattandolo a sé secondo il suo spirito, è come un iconografo, un pittore di icone, come ne abbiamo conosciuti al monte Athos e li conosciamo accanto a noi; dipingere un’icona è fare una lectio divina visibile, tradotta in immagine, perché dalla pittura, come da un testo, a poco a poco emerge quel volto di Cristo pieno di luce e di gloria che vediamo nella contemplazione.

Nella luce di Dio vediamo la luce (cf. Sal 36.10). Agostino così commenta: «É in modo nascosto che Dio parla, è nel cuore che dice molte cose: una grande risonanza si produce nel profondo silenzio del cuore quando egli pronuncia ad alta voce: Io sono la tua salvezza. La lectio Divina ci aiuti a sentire ogni giorno questa voce in noi «Io, il Signore, sono la tua salvezza!» ( Salmo 35,3)

 

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