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tirisan

Il patto delle catacombe per una chiesa serva e povera.

patto catacombeIl 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari hanno celebrato una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù.
Dopo questa celebrazione, hanno firmato il “Patto delle Catacombe”.
Il documento è una sfida ai “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII.
I firmatari – fra di essi, molti brasiliani e latinoamericani, poiché molti più tardi aderirono al patto – si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.
Il testo ha avuto una forte influenza sulla Teologia della Liberazione, che sarebbe sorta negli annHelder camarai seguenti.
Uno dei firmatari e propositori del Patto fu dom Helder Câmara, il vescovo brasiliano dei poveri ( 1909-1999)
Di seguito il testo.
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
1) Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.
2) Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento.
3) Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.
4) Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.
5) Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.
6) Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.
7) Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
8) Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.
9) Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficienza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.
10) Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.
11) Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:
– a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
– a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
12) Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:
–   ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
–  formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo;
–  cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;
–  saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.
13) Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci Dio ad essere fedeli.

IV Domenica di Quaresima: alzarsi, andare vuol dire ricominciare a vivere di speranze, nella speranza.

prodigoVi sono molti modi di rifiutare il Padre e il cammino verso di lui. Il più comune (e il più nascosto nell’inconscio) è di rifiutare la morte. Eppure tutti, senza distinzione, siamo incamminati in un viaggio, breve o lungo, che inesorabilmente ci porta verso di essa.
Vivere è anche convivere con l’idea che tutto prima o poi finirà.
V’è chi si consola pensando che quando ci sarà la morte noi non ci saremo più e che finché ci siamo essa non c’è. Ma si tratta di una consolazione fragile. In realtà la morte incombe su ogni istante della nostra vita, incombe nella forma della domanda: che sarà di me dopo la morte? che senso ha per me la vita? dove vado con tutto il bagaglio dei miei sforzi, delle mie pene, delle mie magre consolazioni?
In tali domande la morte appare come una sfida radicale al pensare umano, una sfida da cui nasce una riflessione seria. E’ come una sentinella che fa la guardia al mistero. ….
Sento che alcuni leggendo queste parole saranno tentati di rifiutarle: perché cominciare con un argomento così serio e troppo poco pervaso dalla speranza delle Scritture? Eppure non ho fatto altro che richiamare la vicenda narrata da Gesù nella parabola dei due figli. E’ quando il minore, che ha voluto andarsene da casa e ha sperperato i suoi beni, si trova a toccare il fondo   …..   che, quasi per contraccolpo, si ricorda che c’è una casa del padre, dove anche i servi hanno vita, dignità
L’esperienza della miseria gli consente di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di ribellarsi. Quando ci sentiamo soli, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o essere scontenti di noi, quando la prospettiva della morte o di una perdita grave ci spaventa e ci getta nella depressione, ecco che dal profondo del cuore riemerge il presentimento e la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati, al di là di tutto e nonostante tutto.
Il Padre è in questo senso …l’immagine di qualcuno a cui affidarci senza riserve. …. La sua figura ha al tempo stesso tratti paterni e materni: se ne può parlare come del Padre nelle cui braccia si è sicuri e come della Madre a cui ancorare la vita che da essa riconosciamo. E’ pertanto evocazione dell’origine, del grembo, della patria, della casa, del focolare, del cuore a cui rimettere tutto ciò che siamo, del volto a cui guardare senza timore. Il bisogno del Padre è quindi equiparabile al bisogno di un riferimento e di un rifugio paterno e materno e può essere espresso indifferentemente con metafore maschili e femminili.
In questa luce la parola del figlio prodigo “Mi alzerò e andrò da mio padre” esprime l’esigenza di un’origine in cui riconoscersi, di una compagnia da cui sentirsi amati e perdonati, di una meta verso cui tendere. ….
Se le cose stanno così, perché allora in tanti è presente un rifiuto perfino viscerale della figura paterna? Perché il Padre-Madre delle nostre origini è al tempo stesso per molti l’avversario da combattere, la controparte da cui emanciparsi e fuggire? Perché il figlio più giovane della parabola vuole “andarsene lontano” dalla casa paterna e dal padre?
Le ragioni del prodigo per andare via di casa sono le stesse per le quali è stata coniata l’espressione “uccisione del padre”. Essa denota l’impulso che c’è in noi di chiedere conto e ragione, a chi pensiamo che in qualche modo stia sopra di noi, di ciò che ci spetta, per essere finalmente padroni di noi stessi e del nostro destino, per fare di noi “ciò che ci piace”. Ma per questo occorre cancellare in qualche modo la figura del padre, fare come se non ci fosse mai stato, in qualche modo sopprimerlo. ….
Il rifiuto del padre di non pochi nostri contemporanei ci deve rendere guardinghi riguardo a un uso troppo facile dell’immagine paterna (e in certa misura anche di quella materna) per parlare di Dio. Quando parliamo di un “ritorno al Padre” non vogliamo intendere una sorta di regressione alla dipendenza infantile, né tanto meno rievocare conflittualità profonde che hanno segnato alcune personalità. Il Padre-Madre di cui parliamo qui è metafora dell’Altro misterioso e ultimo, a cui affidarci senza paura, nella certezza di essere accolti, purificati e perdonati. Questo riflesso del volto di un Padre-Madre capace di amarci senza riserve è stato vissuto da molti di noi in esperienze felici di relazioni paterne e materne. E pure chi ha avuto solo in parte queste esperienze, chi ha avuto addirittura esperienze negative, ha nel cuore, forse ancora più forte, la nostalgia del totalmente Altro a cui abbandonarsi.
Questo Altro che si offre a tutti come Padre-Madre nell’amore, come “Tu” di misericordia e di fedeltà, è quello che ci è stato rivelato in Gesù Cristo. Non è una pura aspirazione, un auspicio, un vano sospiro interiore: è una realtà che ci è stata manifestata, a cui possiamo appoggiarci come a roccia che non crolla, come a braccia che tengono stretti, come a cuore che palpita per noi.
 …. Lì dove l’uomo si chiude in se stesso o pretende di abbracciare l’intero universo nel corto orizzonte dei suoi progetti, trionfano l’angoscia, il non senso, la solitudine.
Lì dove la persona accetta di mettersi in ricerca e di aprirsi a un orizzonte più grande, la figura di un Padre ci viene incontro e ci chiama.  …..
Se la conoscenza di Dio come Padre non è una proiezione dell’esperienza che abbiamo di chiamare qualcuno sulla terra “padre” e “madre”, bensì una rivelazione dall’alto … nondimeno ogni cattiva prova fatta in questo campo nel seno della famiglia rischia di oscurare l’immagine paterna di Dio caricandola delle amarezze ed esperienze mancate che segnano l’infanzia e l’adolescenza di molti.
Lo stesso si potrebbe dire per ogni altra forma di rapporto che risponda in qualche modo al nome di “paternità”: quella pastorale, ad esempio, nella relazione pastore-fedeli, o quella spirituale nell’accompagnamento dei cammini di fede e di discernimento.
Sarebbe quindi possibile, a partire da quanto detto, delineare una tipologia di paternità e maternità distorte, come pure rilevare, nel mistero della paternità di Dio, le linee guida per il loro superamento.
Si tratta insomma di ripensare il rapporto genitoriale nella famiglia (e tutti i rapporti analoghi) alla luce del misterioso rapporto di paternità e di figliolanza tra Dio e l’uomo. Si pensi ad esempio a quanto nella società di oggi il “padre misericordioso” venga confuso con il padre dalle concessioni facili, che non sa insegnare ai figli a portare i pesi della vita. O al contrario come il richiamo all’autorità paterna venga bistrattato nella formula del padre-padrone.  ….
“Mi alzerò e andrò da mio padre”: è su tale decisione di farci pellegrini e di andare incontro all’abbraccio dell’Altro accogliente che si gioca il cammino di liberazione della nostra vita e il superamento della crisi del secolarismo.
Alzarsi, andare vuol dire non lasciarsi prendere dalla nostalgia di un passato esistente solo nella nostra mente, né dalla seduzione di un presente in cui restar fermi nelle nostre piccole sicurezze o nel lamento sui nostri fallimenti.
Alzarsi, andare vuol dire accettare di essere sempre in ricerca, in ascolto dell’Altro, protesi verso l’incontro che ci sorprende e ci cambia, desiderosi finalmente di “obbedire” in maniera adulta (cfr. Mt 21,28-31 – la parabola dei due figli).
Alzarsi, andare vuol dire ricominciare a vivere di speranze, nella speranza. “Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”: la frase – attribuita a Lutero morente – è non solo la confessione onesta del limite sperimentato, ma anche la dichiarazione di un progetto di vita che cerca fuori di sé, nell’Altro, nel Padre-Madre nell’amore il senso della vita e della storia. Andiamo insieme allora verso il Padre ad ascoltare la Parola in cui Lui stesso si è raccontato a noi.
 ( Tratto da:  C.M. Martini: Ritorno al Padre di Tutti )
 

III Domenica di Quaresima: la parabola del fico sterile: meraviglioso simbolo terreno della “ discussione” intradivina tra giustizia e misericordia.

Parabola fico sterileIl brano odierno del vangelo secondo Luca si colloca al cuore della salita intrapresa con decisione da Gesù verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51), dove si compirà la sua passione, morte e resurrezione. Gesù ha appena chiesto a quanti lo ascoltano di esercitarsi a discernere i segni dei tempi, a valutare da se stessi ciò che è giusto (cf. Lc 12,54-57), ed ecco che alcuni sottopongono alla sua attenzione un tragico fatto di attualità, così come ne accadono ancora ai nostri giorni: gli riferiscono «circa quei galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici». La mentalità religiosa del tempo vedeva in avvenimenti come questo un segno del castigo di Dio per il peccato, facendone un’occasione di giudizio sulle vittime…
 Gesù, al contrario, sa assumere questo evento nella fede, cogliendovi un invito alla conversione. E lo fa con parole nette: «Credete che quegli uomini fossero più peccatori degli altri? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». E di seguito cita un altro grave incidente, il crollo della torre di Siloe che aveva causato la morte di diciotto persone, commentandolo ancora con le parole: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
 In questa vita terrena non esiste un castigo di Dio che cade sugli ingiusti mentre risparmia i giusti, ma la verità è un’altra: tutti siamo peccatori, sia chi è morto sia chi rimane in vita, e «chi crede di stare in piedi, dovrebbe fare attenzione a non cadere» (cf. 1Cor 10,12)  …
 Gesù non intende spaventare nessuno, ma vuole insegnarci che ogni evento richiede una comprensione profonda, ricca di sapienza: occorre cioè leggerlo nel proprio cuore non come un semplice fatto di cronaca, ma collocarlo nella storia, anzi nella storia di salvezza, quella che Dio porta avanti invisibilmente ogni giorno. Solo così ciascuno potrà comprendere, innanzitutto per sé, che «Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (cf. Ez 18,23; 33,11)
Affinché questo sia ben chiaro, Gesù narra la parabola del fico sterile, ( E. Bianchi )  «un meraviglioso simbolo terreno della “ discussione” intradivina tra giustizia e misericordia: come l’unica  cosa appare qui divisa in due figure, il padrone e il giardiniere, e questo è però ,alla fine, di nuovo d’accordo col padrone: “ se non da frutto, puoi   fargli scavare attorno “ Così il Figlio può essere d’accordo, o non, con il Padre ( da Hans Urs von Balthasar “ Chicco di grano – Aforismi” )
Se Gesù non ha mai condannato nessuno, ma ha sempre offerto a tutti la possibilità e la speranza della conversione, tanto meno spetta a noi ergerci a giudici della fecondità o sterilità degli altri! Ecco perché, come spesso accade nelle parabole, anche questa resta aperta, quale appello a ciascuno di noi a portare frutti di conversione.
Gesù sapeva bene che «la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio» (Gc 2,13). Ed è proprio la conoscenza di questa misericordia di Dio, più forte dell’evidenza del nostro peccato, che ci può spingere alla conversione. Sì, ogni giorno il cristiano dovrebbe dire con convinzione: «Oggi ricomincio, oggi posso ricominciare», senza mai porre limiti alla misericordia di Dio.( E. Bianchi )
…Noi viviamo come chi ha già sentito pronunciare il giudizio di condanna e gode di una sospensione dell’esecuzione, come l’albero su cui ha posto l’occhio il padrone che deve essere tolto via ed invece, per un di più di misericordia e di tolleranza, deve dare l’ultima prova di sé.
Noi siamo all’ultima prova.
Questo tipo di analisi, che non mette in questione ciò che c’è nei cieli ma mette in questione ciò che c’è sulla terra, ci permette di riprendere le misure. Anche le misure della nostra fede in Dio.
 Avremmo bisogno, come diceva Bonhoeffer, di assumerci un impegno (lui diceva di venticinque anni , ma noi potremmo dire anche di più) di non nominare Dio, di fare silenzio, perché ormai anche il suo nome imbroglia.
 Dalla Scrittura di oggi però ci viene fatta una proposta: il Dio di cui parliamo è il Dio che ha avuto pietà degli oppressi. (Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 3 – anno C)
 

Benedetto XVI ha iniziato l'ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra.

www.chiesadicefalu.itwww.chiesadicefalu.itDalle 20.00  del 28 Febbraio Benedetto XVI è “un semplice pellegrino”, giunto all’ultima tappa della sua esistenza.
Questo il suo commiato affacciandosi sulla piazza di Castelgandolfo:
“Cari amici, sono felice di essere con voi, circondato dalla bellezza del Creato e dalla vostra simpatia che mi fa molto bene. Grazie per la vostra amicizia, il vostro affetto!”.
“Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti; non sono più Sommo Pontefice della Chiesa cattolica: fino alle otto di sera lo sarò ancora, poi non più. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia”.
Grazie, buona notte! Grazie a voi tutti!”.
Tra gli striscioni della folla uno  sembra racchiudere  la grandezza e novità del suo gesto: La tua umiltà ti ha reso più grande.
Benedetto XVI entra nel nascondimento, mentre inizia il periodo della sede vacante in attesa del conclave .
Nella mattinata un commosso commiato da tutti i cardinali tra i quali, ha detto Benedetto XVI, c’è il futuro Papa al quale prometto obbedienza.
Tra le cose che ha portato con se’ diversi libri di  teologia, spiritualità, storia, tra i quali ‘L’estetica teologica’ di von Balthasar.
   Non lasciamoci trasportare dalle varie illazioni giornalistiche; viviamo questo tempo di attesa nella preghiera affinchè il Signore continui a meravigliare la sua Chiesa riempendola dei suoi doni.
( Cliccando sulle due immagini è possbile aprire i video del commiato dai cardinali e della partenza dal Vaticano )
 

I concili nei secoli
Clck sull’icona per aprire il documento



I° CONCILIO DI NICEA



I° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



I° CONCILIO DI EFESO



I° CONCILIO DI CALCEDONIA



II° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



III° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



II° CONCILIO DI NICEA



IV° CONCILIO DI COSTANTINOPOLI



LETTERA A DIOGNETO


I° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



II° CONCILIO LATERANENSE



IV° CONCILIO LATERANENSE



I° CONCILIO DI LIONE



II° CONCILIO DI LIONE



CONCILIO DI VIENNA



CONCILIO DI COSTANZA



CONCILIO DI BASILEA



V CONCILIO LATERANENSE


CONCILIO DI TRENTO



CONCILIO VATICANO I°

Incontri sulla Dei Verbum
Incontri sulla “ DEI VERBUM” Comunità Itria dal 26 Novembre 2018. Per accedervi click sull’icona che scorre di seguito .
Introduzione alla lectio divina
Cliccando sulla copertina del libro o sulla voce del menu “ pregare la parola” leggiamo ogni giorno una pagina del libro di Enzo Bianchi per entrare nello spirito della Lectio Divina.
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