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V Domenica di Pasqua – Non gli altri tralci, e neanche Gesù, ma il Padre, prende e toglie un tralcio che è inutile.

La vite e tralciIl legno della vite è l’unico legno tra gli alberi della campagna con il quale non si può fare nulla; non ci si può fare un oggetto, un attrezzo utile.  
Il legno della vite è buono soltanto per far passare la linfa vitale ai tralci e produrre frutta.[ ….] è un legno inservibile, se non per portare frutto.
È a questa immagine del Profeta Ezechiele che Gesù si riallaccia nel famoso discorso della vite e dei tralci, contenuto nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni.
[…]Nella cultura d’Israele la vite era immagine del popolo, del popolo di Israele.  C’è il famoso cantico d’amore del Signore per la sua vigna, contenuto nel capitolo 5 del Profeta Isaia; anche il Profeta Geremia parla di Israele come di una vite. ( A Maggi )
 [La vite e i tralci esprimono] il mistero di una copresenza vitale.   I primi cristiani esprimevano la loro esultanza attraverso questa immagine o con l’immagine del corpo, che usa invece Paolo.  Son tutte immagini estremamente pericolose perché non riescono a salvare la reciprocità.
In fondo i tralci o le membra del corpo non hanno autonomia, mentre noi abbiamo con il Cristo un rapporto personale che ci lascia in totale possesso della nostra libertà.
Noi non siamo mai strumenti o puri tramiti ma siamo, al livello della dignità personale, delle libertà che fiammeggiano e si richiamano l’una con l’altra. ( Ernesto Balducci – “Il Vangelo della pace” voI. 2 anno B)
La vite, del resto, non è cosa «altra» rispetto ai tralci, ma forma con loro un tutt’uno; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Giovanni racchiude l’intensità e la continuità di questa relazione – che è il segreto della vita cristiana – nel verbo “rimanere”. (Monsignor Nunzio Galantino)
 Gesù dichiara di essere “la vera vite”,( quindi ci sono delle false viti)
[…] Il Padre “è l’agricoltore”: dei ruoli ben distinti: Gesù è la vite, dove scorre la linfa vitale, il Padre è l’agricoltore ( che ha interesse ) che la vigna porti sempre più frutto e infatti, scrive l’evangelista, “ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie”.
[…] Non gli altri tralci, e neanche Gesù, ma il Padre, prende e lo toglie, perché è un tralcio che è inutile.  […] Il Padre che ha a cuore che il tralcio porti più frutto sa individuare quegli elementi nocivi, quelle impurità, quei difetti che ci sono nel tralcio e lui provvede a eliminarli.  […]Questo da piena serenità; l’unica preoccupazione del tralcio è portare frutto, tutti gli impedimenti a frutti abbondanti ci penserà il Padre, non gli altri tralci, neanche la vite, ma il Padre. ( A Maggi )
. Ogni volta che il Padre pota noi è nel Cristo che pota. I rami che si seccano vengono tagliati e gli altri vengono potati. Le potature che noi abbiamo subito le ha già subite in anticipo il Cristo.
Noi siamo in Lui per la Parola. C’è il fatto dell’innesto e l’economia del Padre che distribuisce a ciascuno i suoi doni: c’è la Parola che ci è stata destinata ed è solo in questa Parola che noi possiamo osservare i comandamenti. L’esperienza dello Spirito che testimonia la nostra incorporazione avviene ogni volta che si dà la comprensione del nostro battesimo. ( G. Dossetti )
In questa parola di Gesù ci viene anche ricordato che non spetta né alla vigna né alla vite potare, e dunque separare, staccare i tralci: solo Dio lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona. ( E. Bianchi )
[Nelle letture di oggi] altri due spunti fondamentali :
«Dio è più grande del nostro cuore». ( seconda lettura )
[…] Io non devo mai dimenticare che questo centro delle coscienze è più grande della mia coscienza, è più grande della nostra coscienza, è grande più che l’universo e che perciò non posso misurare Dio con il mio cuore.
Non posso misurare i disegni di Dio con il mio cuore, ma viceversa.
Se io guardo le creature tutte, anche quelle che mi sembrano lontane dalle cose che sto dicendo, io so che Dio le circoscrive.    Il cuore di Dio circoscrive tutto, perciò ciò che mi fa effetto di estraneità non lo rifiuto, non lo rigetto, ma mi dico: «il cuore di Dio è più grande del mio».
Anche dove trovo la cosiddetta immoralità, anche dove trovo la irregolarità, che certo io non approvo in sé, mi guardo bene dal pronunciare l’ultima sentenza, in quanto tutti abitiamo in questo cuore di Dio. …  Il suo cuore è più grande del nostro.
[…]  Dire che uno è fuori legge non vuoi dire che uno è fuori dal cuore di Dio.
Purtroppo è questo che abbiamo fatto e facciamo ancora.
Mi riferisco alle forme religiose le più diverse (ce ne sono tante, nel mondo): perché devo dire che la mia è la vera e le altre sono false?  Perché?   Forse è falso il cuore di Dio?
Questa è la prima correzione.  Ed è fondamentale, in quanto mi libera dal pericolo della legittimazione religiosa dell’inimicizia.
L’altra questione importante è questa: come faccio io a sapere che mi trovo proprio in questo focolare delle coscienze al cui centro c’è il Dio di Gesù Cristo?
L’indicazione è precisa: «amate non a parole ma nei fatti».   Amare nei fatti è cosa infinitamente lontana dall’amare a parole o con i sentimenti.    Nulla è più ambiguo del sentimento se non si accetta la misura della ragione e la misura dei fatti, il frutto di cui parla anche il Vangelo è il fatto.
Se, ad esempio, c’è una comunità che vive tutta chiusa in intensa vita spirituale, in un quartiere dove ci sono disoccupati, drogati, senza tetto… cosa è, questa comunità, nei fatti?
Il baricentro di una comunità che abbia le misure del cuore di Dio non è dentro ma fuori, dove non c’è la stessa esperienza, dove c’è la sofferenza, l’attesa, il bisogno, la tribolazione.
È essenziale ricordarlo, perché altrimenti succede che assecondando questo compiacimento dell’esperienza interiore, noi potremmo camuffare, attraverso le forme dell’amore cristiano, le più terribili ingiustizie.
[… ] Il messaggio che dobbiamo portare è il messaggio che scompagina le formazioni terrene perché è sospinto dal bisogno di universalità.
Non saremo in pace finché non saremo, tutte le creature, una sola famiglia: altro che comunità entusiastiche, esaltate, chiuse nel privilegio della loro esperienza!
Quel che ci guida, ci sorregge e ci disturba è questa dialettica: per avere veramente una esperienza di chiesa, io devo star fuori della chiesa, devo guardarla dal di fuori, non dal di dentro.
Dal di dentro sono attratto e aggregato dall’egoismo collettivo, che si moltiplica per processo di induzione nella moltitudine delle coscienze che fanno parte del gruppo.
Devo star fuori del gruppo, devo essere contro il gruppo a cui appartengo per tenerlo nelle dimensioni dell’ampiezza del cuore di Dio, altrimenti mi faccio strumento del particolarismo.
E così, nella misura in cui io sono fuori, in cui vivo nella diaspora, braccato come Paolo, fuori dei confini anche psicologici della comunità, io devo ricordarmi che la mia vera identità è là dove io posso, assieme ai fratelli, esprimere con gioia la stessa fede e la stessa speranza.
Questa impossibilità di far coincidere due punti dislocati tra loro è la vera tribolazione morale, ma anche la nostra salvezza.
Il tempo in cui siamo – il tempo delle cose, della reificazione universale – esaspera la fame e la sete del focolare.  Dobbiamo rendercene conto anche a livello pedagogico.
A volte trovate nel volto dei giovani tristezza e delusioni di cui non sapete l’origine.  Fate un’ipotesi: che ci sia la nostalgia del focolare? Parlo per simboli. Essa deve fare i conti con l’altro bisogno, quello di una universalità talmente concreta da apparire come contestazione del gruppo, come rigetto del gruppo di appartenenza.
Se non ci facciamo stranieri in casa nostra, la casa nostra diventa una prigione, diventa un fortilizio aggressivo. ( Ernesto Balducci – “Il Vangelo della pace” voI. 2 anno B)

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